Molte aquile ho visto in volo: intervista a Filippo Nassetti


“La mia idea era raccontare la sua vita, quindi la sua determinazione, che è quello che lui mi ha lasciato e insegnato”

Intervista di Desirè Sara Serventi

Ci sono libri con al loro interno storie che hanno la capacità di catturare l’attenzione del lettore dalla prima sino all’ultima riga. Uno di questi è sicuramente “Molte aquile ho visto in volo”, scritto dal giornalista Filippo Nassetti, che va a raccontare la vita di piloti straordinari che con passione e dedizione svolgono uno dei lavori più affascinanti di sempre. Protagonista di questo capolavoro letterario è Alberto Nassetti, grande aviatore italiano che ha perso la vita a causa di un incidente aereo nei cieli di Tolosa durante un volo di collaudo di un A330. Con uno stile a dir poco straordinario, Filippo Nassetti è riuscito a portare il lettore in questo viaggio letterario alla scoperta di questi carismatici professionisti che, prima di essere tali, sono senza ombra di dubbio dei grandi uomini che continuano a distinguersi sia sul lavoro che nella vita di tutti i giorni. Sledet.com ha raggiunto Filippo Nassetti che ci ha parlato di questo testo.

“Molte aquile ho visto in volo”, è questo il titolo del libro da lei scritto. Come nasce l’idea?
Inizialmente avevo pensato di raccontare dieci storie di piloti che trovavo molto suggestive, particolari, originali per motivi diversi. Poi, sotto suggerimento di Gabriele Romagnoli, che ha scritto la prefazione, ed è un amico col quale mi sono consultato spesso durante la fase di preparazione del libro, ho deciso di aggiungere alle altre storie, anche quella di mio fratello Alberto. Ricordo che me lo propose con molto riguardo, anche perché devo confessare che avendo la prospettiva del fratello, avevo sempre avuto il timore di avere una visione falsata riguardo la sua storia.

Cosa intende dire?
Intendo dire che io so, che la storia di Antonino Vivona è straordinaria, così come lo è quella di Tullio Picciolini, per citarne alcuni, e lo dico perché so di essere obiettivo nel valutarla. Nel valutare invece una storia che mi riguarda personalmente, temevo di guardarla con una lente diversa.

Questo dubbio venne poi spazzato via?
Si in quanto Romagnoli mi fece notare che la storia di Alberto meritava di essere raccontata, anzi, doveva essere la storia principale, e così è stato.

Chi era Alberto?
Alberto era una persona che aveva un sogno, una grande vocazione, che era quella di fare il pilota. Ho visto negli anni questo desiderio diventare sempre più concreto attraverso lo studio, attraverso l’applicazione, tanto da portarlo ogni giorno a viaggiare da Bologna a Forlì per frequentare l’Istituto Tecnico Aeronautico. Dopo il diploma andò a fare il corso da pilota Alitalia, e superò tutte le selezioni arrivando al primo posto. Alberto entrò nella nostra compagnia di bandiera come uno dei piloti più giovani.

Nel libro lei narra una vicenda molto simpatica riguardante la maestria di suo fratello nel riuscire a trovare la frequenza degli aerei che sorvolavano i cieli sopra casa vostra. Vuol raccontarci?
Ci eravamo già trasferiti da Bologna a Roma, e ricordo che Alberto, un giorno, mi disse di andare con lui sul terrazzo, così da potermi far vedere cosa riusciva a fare con la radio. Con gli occhi rivolti al cielo, aspettava di veder passare un aeroplano, e nel momento in cui ne scorgeva uno, girava la manopola della radio, dove aveva manomesso le frequenze, per intercettare le loro comunicazioni di volo. All’epoca quello che faceva era molto impressionante, a differenza di oggi, in cui si possono ascoltare le voci della torre di controllo su internet.

La vita di Alberto, a causa di una malattia, prese una piega inaspettata. Cosa accadde?
Accadde che ad Alberto venne diagnosticato un tumore al cervello. Fu una cosa improvvisa. A noi familiari lo nascose, disse infatti che doveva sottoporsi ad un piccolo intervento. Non sapevamo di questo dirupo che gli si stava aprendo davanti.

Per quale motivo non vi disse la verità?
Perché non voleva creare apprensione e preoccupazione. Lui era molto autonomo, e pensava di poter gestire da sé questa cosa. Nonostante la giovane età, 24 anni, era un ragazzo molto maturo, viveva per conto suo, e faceva la professione che gli dava un’indipendenza economica.

Suo fratello venne operato. Dopo l’intervento ebbe difficoltà a rientrare in servizio?
Il sindacato, ovvero l’ANPAC, cercò dei precedenti di piloti operati al cervello e tornati in cockpit, così da aiutare il ritorno al volo di Alberto, in modo tale da poter dire: guardate, è un percorso fattibile, è un qualcosa che si può fare, perché qualcuno l’ha già fatto.

Si trovarono dei precedenti?
No, non si trovarono questi precedenti, o meglio dire, ce ne erano stati solo alcuni nell’Aviazione Militare Americana.

Quindi?
Quindi fu valutata attentamente la possibilità di ridare l’abilitazione a un pilota per qualcosa che prima non era mai stata fatta. Ovviamente vi era molta prudenza nel gestire questa situazione.

Alberto non aveva alcune intenzione di rinunciare al suo lavoro. È corretto?
Lui era molto ostinato e voleva assolutamente riottenere la sua abilitazione al volo, per questo motivo, con l’aiuto del medico che lo aveva operato, riuscì a riaverla.

In che modo?
Rinunciò a dei farmaci che potevano inibire il ritorno al volo e si sottopose a tutta una serie di esami, anche a livello internazionale, infatti il suo medico organizzò un consulto a Chicago con altri due professori, in cui si espressero in maniera favorevole e questo fu anche di grande aiuto per l’Istituto di Medicina Legale.

Alberto dopo aver riottenuto l’abilitazione volava con una formula di protezione?
Sì. Dopo l’intervento è tornato a volare pienamente, ma con una formula di protezione, che è quella dell’equipaggio rinforzato.

Potrebbe essere più preciso?
Lui volava solo durante i corsi comando, quando nella cabina di pilotaggio c’erano tre piloti e non due. Questo venne fatto più per una forma di rassicurazione, infatti, nel caso in cui gli fosse successo qualcosa, vi era qualcuno pronto a prendere il suo posto.

Poi riottenne la piena abilitazione?
Sì, successivamente superò anche questo, e riottenne la piena abilitazione, uscendo così da questa protezione che gli era stata creata.

Come potrebbe definire la stesura di questo libro?
Diciamo che questo per me è stato un viaggio, perché molte cose riguardo mio fratello le porto nella mia testa, le conservo nel mio cuore, tante altre le ho apprese in questo lavoro di ricerca.

Quali per la precisione?
Per dirne una, non conoscevo i dettagli clinici. Leggere i referti, e ciò che il medico scriveva, mi ha fatto comprendere la gravità della situazione e apprezzare la scelta di mio fratello di operarsi subito, anche se, trattandosi di una zona così delicata come il cervello, vi era la possibilità di perdere la mobilità o avere delle conseguenze nel linguaggio.

Leggendo questi referti medici, è rimasto sorpreso riguardo la scelta di Alberto?
No. Devo dire che in tutto questo ho riconosciuto sempre mio fratello, non sono cose che mi hanno sorpreso. Ho un ricordo molto nitido della sua forza di volontà.

Vi è una caratteristica che contraddistingueva Alberto?
La capacità di avere sangue freddo sulle cose, di affrontare le situazioni senza farsi prendere dall’emotività. Riusciva a razionalizzare molto bene tutto quello che accadeva.

Era una persona determinata?
Sì, era una persona determinata, forte, coraggiosa, che non aveva timore di affrontare strade apparentemente difficili, se non impossibili.

Su che chiave ha deciso di raccontare la storia di Alberto?
La mia idea era raccontare la sua vita, quindi la sua determinazione, che è quello che lui mi ha lasciato e insegnato.

Cosa le ha insegnato?
Lui diceva: se tu hai un sogno portalo avanti, impegnati per farlo diventare realtà. Tu solo hai la possibilità e la capacità di farlo se veramente ci credi. Difendi quel sogno e non lasciare che qualcuno te lo possa portare via. Questo è quello che mi ha insegnato e che ho voluto raccontare con “Molte aquile ho visto in volo”.

Era il 1994 quando il pilota Alberto Nassetti perse la vita durante un volo di collaudo nei cieli di Tolosa. È corretto?
Sì l’incidente accadde su un volo di collaudo di un A330. Le vittime dell’incidente aereo furono sette, tutto personale tecnico, forse per questo motivo non ebbe mai una grande eco sulla stampa o sulle televisioni. Non essendo infatti un volo di linea, viene ricordato solo da chi lavora nell’ambiente.

Lei ha scelto di raccontare molto brevemente, l’ultimo volo di Alberto. Da che cosa è stata dettata tale scelta?
Semplicemente perché è l’ultimo tassello che chiude una storia. Ho fatto una cronaca, riportando alcuni dati, tipo: l’ora, la temperatura, semplicemente per raccontare come è finita. L’aereo aveva un test da fare, la cosa non è andata bene, e il volo è durato pochissimo. Non c’è altro da aggiungere.

In questo libro rivive la vita di Alberto. Nello specifico cosa le ha permesso di vedere?
Nelle testimonianze degli amici ho constatato come, dopo 26 anni, il suo ricordo sia molto vivo, presente, nitido. Una cosa che mi ha fatto piacere, perché vuol dire che ha lasciato qualcosa, non solo a me o ai miei familiari, che è la cosa più normale e ovvia che ci sia, ma anche alle persone che ha incrociato nella sua vita. Questo mi consola.

Vuol raccontare l’aneddoto del tennis capitato a lei e ad Alberto?
Sì. All’epoca, avevo 12 anni, frequentavo una scuola di tennis. Un giorno litigai con l’istruttore che mi cacciò dal campo e mi disse di tornare accompagnato da un genitore. La volta successiva mia madre delegò Alberto e, ricordo che mentre ci dirigevamo al campo da tennis, ero un po’ tronfio perché ero sicuro che avrebbe preso le mie difese. Quando arrivammo, invece, Alberto ascoltò con attenzione quello che l’istruttore diceva sul mio comportamento poco cortese nei suoi confronti, e mentre lui parlava, con stupore, notavo che gli dava addirittura ragione. Finita la “romanzina”, si congedò da lui chiedendogli scusa. Rimasi deluso dalla piega che aveva preso questa conversazione, infatti, mentre andavamo via, iniziò a rimproverarmi dicendo di non permettermi mai più di non mostrare educazione con una persona più grande di me. Questa vicenda fu per me d’insegnamento e mi colpì veramente molto. Probabilmente se la stessa cosa me l’avesse detta mio padre o mia madre l’avrei sentita con meno convinzione, perché l’avrei recepita come un non capire i miei sentimenti giovanili di ribellione, ma invece detta da lui, mi fece comprendere di aver fatto una “fesseria”.

Cosa rappresentava per Alberto il volo?
La sua vita, e tutto quello per cui lui aveva studiato e si era impegnato.

Chi era Alberto quando non vestiva i panni di pilota?
Era una persona estremamente dinamica, molto amante dello sport, della corsa, della palestra, diciamo che non era di certo una persona a cui piaceva stare ferma. Aveva tante passioni: il motocross, la scrittura, l’alpinismo e la fotografia. Quando era fuori per lavoro si portava sempre la macchina fotografica, era una cosa che lo coinvolgeva molto.

Il titolo del libro nasce da una poesia di Alberto. È corretto?
Sì, sicuramente era quella a cui lui teneva di più, e che si può definire un po’ profetica, purtroppo. “Molte aquile ho visto in volo / Ali maestose sfidare il suolo / Rapaci solitari incontro al sole / Imperiali figure sfrecciare nelle gole / Ancora a lungo li vedrò / poi, con loro, io morirò”.

La storia di Alberto viene alternata con quella di Pier Francesco Racchetti, cui padre, perse la vita nel disastro aereo insieme a suo fratello. Come fa scorrere queste due storie?
Racconto la storia di Alberto alternandola con quella di Pier Francesco Racchetti, ma in due modi differenti. Quella di Alberto ha uno scorrere cronologico naturale, quindi da quando lui è adolescente e decide di voler fare il pilota, fino all’ultimo volo. A Pier Francesco invece, gli faccio fare il percorso inverso. Lo prendo oggi che lui è un pilota Ryanair e lo riporto indietro a rivedere tutto il percorso che lo ha portato a diventare pilota, in modo tale che poi le due storie si toccano.

Le due storie in quale punto si toccano?
Nel 1994, anno in cui, una storia finisce e l’altra inizia. Pier Francesco è nato un mese dopo l’incidente. È quasi un passaggio di testimone. Anche per questo non è un libro malinconico o triste, ma un testo che racconta delle passioni. Sicuramente è anche un inno alla vita, alla forza, alla voglia di credere nei propri sogni.

Tra le storie da lei raccontate, vi è anche quella dell’ex pilota delle Frecce Tricolori, il comandante Antonino Vivona. Cosa può dirci su di lui?
Innanzitutto Nino è una persona straordinaria. Quando stai con lui ti sembra di stare con l’enciclopedia del volo, tanta è la sua competenza e la sua leadership. Lo noto dalle persone che interagiscono con lui che queste doti gliele riconoscono. Adesso che ha lasciato la compagnia dove prestava servizio sta curando l’addestramento di una pattuglia acrobatica privata. Vederlo in alcune circostanze, è come assistere ad una lezione universitaria.

Cosa le ha insegnato la sua storia?
La capacità di rialzarsi dopo un evento scioccante come Ramstein. Non furono facili i mesi successivi a quel terribile evento. Ma il senso di responsabilità di rappresentare il Paese con il tricolore più grande del mondo li indusse a superare tutte queste difficoltà, anche quando da molte parti si chiedeva lo scioglimento della Pattuglia.

Lei nel libro parla anche del Primo ufficiale Marco Conte. Vorrebbe descriverlo?
Marco è una persona di grande generosità e con dei valori molto profondi. Ogni dialogo con lui non è mai banale. Si è innamorato dell’Africa durante un viaggio fatto nel Ruanda, dove andò in “vacanza”, per vedere in prima persona le condizioni di quel Paese dopo che tutti ne avevano parlato sui telegiornali ma dove poi, era calato il silenzio. Per farla breve, si innamora così tanto dell’Africa che decide di impegnarsi in prima persona in un progetto per costruire dei pozzi d’acqua potabile nel Mali. Intraprende questa impresa senza avere nessuna competenza tecnica, però inizia a studiare, conosce le persone del posto, le ditte locali e stabilisce dei solidi rapporti umani con le persone che abitano in quei villaggi.

Qual è la cosa che l’ha maggiormente colpita in questa storia?
Quando gli ho chiesto se le persone del posto, sapessero che avevano davanti a loro un pilota. Lui mi rispose, riferendosi ai bambini, che era impossibile per loro saperlo, in quanto non sapevano nemmeno cosa fosse un aereo.

Ha fondato un’associazione, è esatto?
Sì “Friends for Water”. Lui le sue ferie le fa così, andando in giro per l’Africa a costruire i pozzi di acqua potabile. Poi la sua passione per il volo lo ha portato a comprare, insieme ad altri amici, un piccolo aeroplanino in Sud Africa con cui porta i turisti in giro.

Nel libro racconta anche la storia di Gerardo Iurio. Cosa può dire a riguardo?
Dino ha una grandissima passione per la montagna. Lui ha scalato tante montagne importanti: Monte Bianco, Monte Rosa, alcune vette delle Ande e dell’Himalaya, per citarne alcune. Nel libro racconto la vicenda che lo ha visto protagonista nel salvataggio di due alpinisti australiani rimasti sepolti da una valanga durante una scalata, in solitaria, da lui approcciata, con una preparazione da pilota, senza lasciare nulla al caso. Dopo quella esperienza, nel suo tempo libero, si occupa di soccorso alpino.

Tra le storie raccontate vi è anche quella di Francesco Miele. Vuol parlarcene?
Posso sicuramente dire che la sua storia è pazzesca. Un giorno Francesco mentre stava in sella alla sua moto ha un incidente bruttissimo dove si trancia di netto la gamba. A questo incidente assiste una passeggera a bordo di un autobus, che ha la prontezza di scendere per prestargli soccorso, facendogli un laccio emostatico con la cintura dell’autista del bus. Qualche giorno dopo la ragazza lo va a trovare in ospedale e i due finiscono per innamorarsi e oggi sono i genitori di due splendidi bambini. Ma racconto anche l’obiettivo di Francesco di rimanere pilota, nonostante l’amputazione della gamba.

Vi erano dei casi precedenti nell’aviazione?
Sì, solo un pilota militare americano aveva una storia simile, con cui Francesco si è messo in contatto e gli ha dato i giusti consigli, tanto da farlo diventare il primo pilota europeo amputato.

Lei narra anche la storia di Tullio Picciolini. Per cosa si caratterizza la sua storia?
Tullio Picciolini è un grande appassionato di mare, tanto da spingerlo a provare a superare il record del mondo di traversata atlantica in catamarano tra il Senegal e il Guadalupe. Nonostante non sia riuscito nella sua impresa, a causa del maltempo, si può dire che il solo provarci è stata una cosa considerevole. Mi ha raccontato di come la sua vita sia sempre stata legata a questo doppio filo, cielo e mare e come i due ambienti si assomiglino. Mi ha inoltre spiegato che andare per mare lo ha aiutato a essere un pilota migliore, così come, essere un pilota, lo ha aiutato ad essere un navigatore migliore.

Cosa hanno in comune questi piloti l’uno con l’altro, tanto da scegliere di raccontare le loro storie e non quelle di altri loro colleghi?
Queste storie le ho scelte perché ci sono degli elementi che richiamano le storie di Alberto in determinate cose.

Quali per la precisione?
Sicuramente la determinazione, la voglia di avventura, la generosità nel donarsi agli altri. Vi sono varie caratteristiche che io ho trovato in loro che per me richiamano anche alcuni aspetti della vita di Alberto.

Lei svolge la professione di giornalista. Dove si è formato?
Ho iniziato a scrivere subito dopo il diploma sui giornali locali e mi sono formato sul campo. Ho scritto per Panorama, il Giornale e ho collaborato a due trasmissione della Rai, per citarne alcune, e attualmente lavoro con i media per una nota compagnia aerea. Ho unito così l’interesse per il mondo dell’aviazione con la passione per il giornalismo.

La passione per l’aviazione gli è stata trasmessa da suo fratello?
Sicuramente sì. Con Alberto parlavamo spesso anche della possibilità di fare anch’io il pilota, però ho presto realizzato di non avere la sua feroce vocazione al volo e ho preferito il mio interesse per il giornalismo.

Vi è un articolo da lei scritto che la lega a suo fratello?
Un vecchio articolo scritto per il Giornale di Ostia. All’epoca Alberto andava in giro per cercare soggetti da fotografare e un giorno capitò in un centro anziani. Mentre scattava queste persone gli raccontarono che avevano un problema con la tettoia del campo da bocce. Quando Alberto rientrò a casa mi raccontò la vicenda e quindi decisi di scrivere un articolo che venne pubblicato corredato da una sua foto.

Chi è Filippo quando non è impegnato nella scrittura?
È un padre, un marito, una persona a cui piace leggere, scrivere e giocare a scacchi!

Sledet.com ringrazia per l’intervista Filippo Nassetti, e ad maiora!

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