Intervista al Pilota Alitalia Tullio Picciolini


“L’aeroplano è un bellissimo oggetto pensato da ingegneri e tecnici, però è un pezzo di ferro che senza l’equipaggio non volerebbe” 

Intervista di Desirè Sara Serventi

Tullio Picciolini è un pilota di linea dell’Alitalia che nutre una grandissima passione per le traversate oceaniche, egli ha infatti recentemente provato a battere il record di traversata atlantica da Dakar a Guadalupa detenuto da Nico e Vittorio Malingri, e seppure non sia riuscito a portarsi a casa il riconoscimento, Picciolini ha imparato un qualcosa che vale più di qualsiasi trofeo, ovvero che sia in mare che in volo un buon comandante sa che bisogna avere sempre il massimo dell’umiltà e dell’attenzione, e niente deve essere mai lasciato al caso. Sledet.com ha raggiunto Tullio Picciolini che ha parlato sia del suo lavoro in veste di Pilota Alitalia che delle sue traversate nell’oceano.

Lei è un Pilota di linea con la passione estrema per le traversate oceaniche. Quando nasce il tutto?
Da bambino ho sempre avuto due grandi passioni: quella per il volo e quella per il mare. Ho sempre sognato di diventare un Pilota, ma ovviamente a quell’età non era fattibile, mentre sicuramente lo era avventurarmi per il mare con mio padre. La navigazione è una passione e una cultura che coltivo da quando ero piccolo, trasmessami decisamente da mio padre, infatti ricordo che i miei genitori non perdevano mai un’occasione per portare me e mia sorella a navigare durante le vacanze estive.

La sua passione si concretizzò in un giro del mondo insieme a suo padre, Luciano Picciolini. Vuol raccontarci?
Mio padre ha sempre nutrito l’interesse per la navigazione a vela e infatti, tra i suoi progetti, vi era quello di intraprendere il giro del mondo in barca a vela. Lui lavorava presso l’aeroporto di Fiumicino e una volta andato in pensione decise di acquistare una vecchia barca di nove metri, di costruzione italiana. Fu proprio con questa che negli anni ’90 io e lui salpammo per un’avventura padre e figlio. Fu una bellissima esperienza ed un’opportunità unica, non solo perché si trattava di un viaggio col proprio padre, ma perché in quegli anni senza GPS o altri automatismi, navigare era un qualcosa che potremmo definire sicuramente più essenziale, più primordiale.

Lei prima di essere un navigatore, è un Pilota di linea presso la Compagnia Alitalia. Dove si è formato?
Mi sono formato in Australia, luogo anche in cui ho preso tutti i miei brevetti. Scelsi di formarmi lì non solo perché mi affascinava come Paese, ma anche perché il loro percorso di studi aeronautici era molto simile a quello anglosassone. Volai il primo periodo in Australia tra il ‘95 e il ‘96 e poi tornai in Italia.

Cosa fece una volta rientrato in Italia?
Feci delle selezioni per poter lavorare presso l’Alitalia. Una volta superate frequentai la loro “Scuola volo di Alghero”. Quindi, parlando di formazione professionale posso dire di essere un figlio dell’Alitalia. Da allora ho sempre lavorato presso la nostra compagnia di bandiera.

Il suo lavoro come Pilota, non le ha impedito di continuare a coltivare l’interesse verso la navigazione. È esatto?
Quando ho iniziato a fare il Pilota ho continuato a coltivare e a forgiare la passione per il mare. Devo dire che questa professione mi ha dato l’opportunità di avere una consapevolezza maggiore per quel che concerne la sicurezza in mare, ovvero navigare ma avendo delle nozioni maggiori per quel che riguarda i pericoli e la maggiore sicurezza.

Cosa intende dire con “maggiore sicurezza”?
Chiunque navighi per mare con saggezza lo teme, e ne ha la giusta paura e rispetto. Il buon marinaio non da mai del tu al mare, da del lei e sa perfettamente che c’è sempre da imparare. La buona norma in questo settore è quella di avere una grande umiltà.

Così come per il volo?
Certo! Soprattutto in campo aeronautico non si finisce mai di imparare e la sicurezza in volo è la massima espressione dell’attenzione alla sicurezza fra le attività umane. L’esperienza aerospaziale è quella che impone maggiore attenzione. Niente può essere lasciato al caso, e niente deve mai essere sottovalutato. Ci vuole umiltà in volo!

Essere un Pilota le ha forse dato una marcia in più per la navigazione in mare?
Non la definirei proprio una marcia in più, la definirei più un mettere a frutto l’esperienza aeronautica quando si naviga l’oceano.

Mi consenta la domanda. Per volare e per navigare ci vuole anche una buona dose di preparazione mentale. È corretto?
Ha colto sicuramente l’essenza del livello più alto della scienza o dell’arte della navigazione, che sia aerea o marittima. In campo aerospaziale si pone tanta attenzione al cosiddetto “human factor” ovvero al fattore umano: la capacità relazionale e l’aspetto psicologico sono fondamentali sia per migliorare la sicurezza che la prestazione. Nelle operazioni di volo se un equipaggio non è perfettamente in sintonia prima con se stesso e poi con il prossimo non potrà mai compiere operazioni così complesse. Farlo anche in mare vuol dire poter affrontare tutte le situazioni con la capacità razionale di decidere la cosa giusta quando avviene un’emergenza o un inconveniente.

Qual è una caratteristica che nella professione del pilota è assolutamente necessaria?
I Piloti, rispetto ad altre professioni, devono avere una capacità decisionale fredda e lucida, che viene identificata, in ognuno di noi in fase di selezione. La capacità di decidere secondo regole e poi secondo intuito è un qualcosa di fondamentale, non è nulla di eroico o eccezionale, d’altronde siamo addestrati per questo. Dietro ogni volo vi è una grande formazione che proviene dalle scuole da noi frequentate e dall’addestramento che poi ci viene dato dalla Compagnia per cui prestiamo servizio.

Cosa intende per addestramento?
Tutti noi Piloti abbiamo avuto un insegnamento che è quello di osservare delle regole, di seguire delle procedure specifiche e poi intervenire quando la macchina, l’automatismo o il computer, falliscono. Fortunatamente non siamo ancora stati sostituiti in questo.

La sua prima traversata oceanica risale al 2011. Vuol parlarne?
A parte l’esperienza con mio padre in giro per il mondo, devo dire che fin da ragazzo sono sempre andato in catamarano sportivo per i mari, finché nel 2010, un mio amico Matteo Miceli, che all’epoca deteneva il record di traversate atlantiche in catamarano, mi chiese di fare una traversata con lui su un’imbarcazione di sei metri, e quella per me fu la prima volta. Il nostro intento era quello di superare il record di traversata atlantica da Dakar a Guadalupa in undici giorni.

Quindi?
Al sesto giorno di navigazione, in cui stavamo andando molto veloci, durante la notte ci imbattemmo in un temporale, e a causa di forti raffiche di vento ci rovesciammo. E se questo non fosse stato sufficiente, un’onda che ci seguiva ci rovesciò nuovamente fino a 180°, quindi eravamo capovolti completamente. L’albero si spezzò, ed una volta spezzato il catamarano non si raddrizza più. A quel punto fummo costretti a chiamare i soccorsi. Eravamo seguiti con i sistemi satellitari, quindi ci localizzarono rapidamente, inoltre noi fornimmo la nostra posizione precisa. Ci soccorse, circa dodici ore dopo, una nave che venne dirottata sulla nostra posizione.

Cosa le lasciò quell’esperienza?
Per quel che concerne l’aspetto agonistico la non riuscita dell’impresa. Per quel che riguarda invece l’aspetto umano fu non solo una grande esperienza ma soprattutto una lezione di vita.

Cosa intende dire?
Intendo dire che quell’esperienza ci ha insegnato che la preparazione non era sufficiente e il marinaio non preparato non arriva dall’altra parte. Ovviamente non sto dicendo che fossimo degli sprovveduti, però in quell’occasione mancò una revisione più attenta della barca e di alcuni dettagli, infatti anche il minimo insignificante particolare può determinare un naufragio.

Quest’anno ci ha riprovato?
Sì. Insieme a Giammarco Sardi abbiamo tentato di battere il record di traversata atlantica da Dakar a Guadalupa stabilito da Nico e Vittorio Malingri, che è di undici giorni.

Dagli errori si impara?
Certo! Insieme a Giammarco Sardi, abbiamo riprodotto una rete di sicurezza con un team più grande.

Potrebbe essere più preciso?
Avevamo un team composto da un gruppo di persone che ci hanno seguito fino a Dakar per la preparazione della barca, poi un team che è rimasto a Roma e seguiva la parte meteorologica e di comunicazione satellitare che passava tutti i dati alla Guardia Costiera, quindi in sala operativa di Roma avevano in tempo reale tutte le informazioni di posizione e di navigazione.

Imprevisti durante la traversata?
Gli imprevisti in mare sono sempre dietro l’angolo, però proprio per la preparazione che vi era stata abbiamo posto subito rimedio.

In particolare?
Ci siamo rovesciati tre volte, due delle quali di notte a 180°. Eravamo capovolti totalmente ma il sistema che avevamo ideato prima di partire ci ha consentito di raddrizzare la barca in sei ore.

In cosa consiste?
È un palo che a barca rovesciata si estende da sotto la barca e si contrappone alla forza dell’albero e quindi, come una leva enorme, noi appesi a questo palo, abbiamo potuto raddrizzare il catamarano. Non era scontato che ci riuscissimo, alcuni a terra ci davano già per spacciati.

Non siete riusciti a stabilire un nuovo record?
Nonostante non siamo riusciti a fare nessun record è però trapelata la grande storia di mare, di organizzazione e di preparazione, il tutto sempre con grande umiltà. Tutti hanno apprezzato la nostra impresa. Per questo motivo siamo contenti che sia passato il nostro messaggio. I messaggi che abbiamo voluto portare sono in particolare che quando si parla di mare bisogna avere una maniacale attenzione alla sicurezza e poi, ovviamente vi è il messaggio per la tutela ambientale del mare.

Durante la navigazione avete incontrato distese di alghe, alghe che non fanno pensare a niente di buono?
Mi fa piacere ci sia amplificazione a questo grido di allarme, che poi è chiaro che i biologi e gli scienziati possono dare una risposta più precisa. Noi semplicemente abbiamo fatto un’osservazione. Posso dire che già quattro anni fa navigando sull’equatore a largo del Brasile avevo notato la presenza di alghe e dei pescatori mi dissero che era un fatto eccezionale. Poi tre anni fa quando con una barca attraversavo di nuovo il Tropico avevo notato tante alghe. Quest’anno invece abbiamo incontrato delle distese di alghe che tra l’altro ci hanno rallentato la prima corsa verso ovest. Ma questo naturalmente passa in secondo piano, perché la cosa che ci allarma è che queste alghe probabilmente si sviluppano perché c’è un grande quantitativo di fertilizzanti che vengono trasportati dai grossi fiumi amazzonici del Sud America.

Da chi è stata fatta questa ipotesi?
Si tratta di un’ipotesi fatta da un biologo con cui ho parlato, è verosimile quindi che l’aumento dell’inquinamento non sia direttamente correlato ai fertilizzanti ma potrebbe comunque essere legato. Comunque sia è un dato di fatto che tra plastica, oggetti galleggianti e alghe l’oceano ci sta inviando dei campanelli di allarme, quindi sarebbe il caso non sottovalutarli: dobbiamo reagire!

L’aspetto agonistico durante la traversata perde la sua priorità?
Nel nostro caso è vero. La sfida contro l’elemento primordiale dell’oceano vale più della sfida contro il cronometro. Poi per noi il record da battere di undici giorni si era determinato impossibile per il fatto che gli alisei non erano costanti, e inoltre non c’erano condizioni meteo marine per essere così veloci. Quindi si può dire che l’aspetto agonistico ha perso sicuramente la sua priorità.

Per quale motivo con gli alisei non costanti e le condizioni meteo non proprio favorevoli non ha posticipato la sua impresa?
Per intraprendere quest’impresa presi un periodo di aspettativa e fui costretto a salpare in quei giorni perché il periodo stava per terminare.

Quanto è durata la preparazione?
C’è voluto più di un anno di preparativi fra allenamenti, preparazioni della barca e del team. Abbiamo lavorato alla strumentazione satellitare e a nuove apparecchiature fornite dai vari sponsor, dove abbiamo avuto la possibilità di mettere alla prova anche qualcosa di sperimentale. Diciamo che l’effettuazione della traversata è solo una parte di tutta l’impresa, perché molto impegnativa è stata la preparazione.

Terminata l’impresa qual è stata la frase che le è stata detta che ricorda con più piacere?
Devo confessare che mi sono state dette tante belle frasi, ma sicuramente quella che mi ha fatto più piacere è la frase dei miei figli, Stefano e Camilla, che hanno detto: “La prossima volta si va insieme!” Queste parole mi hanno fatto capire che quello che poteva sembrare una follia, un qualcosa di fuori dalle righe, è una cosa invece che i miei figli condividono con me non solo per ammirazione incondizionata verso il loro padre, ma per ammirazione sincera per quello che ho fatto. Come padre questo mi da una grande soddisfazione.

Pensa che quest’impresa agli occhi dei suoi figli, e non solo, possa essere stato un buon insegnamento?
L’insegnamento che posso aver dato ai miei figli è sicuramente quello di inseguire un obiettivo anche se faticoso e costoso, perché questo ti ripaga comunque in termini di gioie e di obiettivi centrati.

Quali sono state le difficoltà più grandi che avete incontrato in quest’impresa?
Le difficoltà materiali, economiche, e burocratiche, come sdoganare il container in Africa, difficoltà nella preparazione della barca, e poi ovviamente le difficoltà durante la traversata, come la stanchezza o la mancanza di sonno. In ogni caso siamo stati ben supportati dalle persone a terra che ci incoraggiavano.

Chi ha finanziato questo viaggio?
Questa campagna oceanica è stata finanziata con fondi privati, quindi i nostri, e quella di piccoli sponsor o di alcuni amici che hanno collaborato a questa impresa.

Le è capitato di provare paura durante la traversata?
Certo! Non esiste forse il panico, l’ansia e la paura esistono, ci sono state, e hanno posto freno a quelle decisioni sconsiderate che sarebbero state pericolose.

Quindi cos’è la paura in questo contesto?
La paura è un po’ un limitatore di velocità verso un qualcosa di troppo potente e senza la paura infatti si rischia di lanciarsi in maniera sconsiderata verso azioni potenzialmente pericolose: per intenderci meglio, è come lanciarsi da un aereo senza paracadute.

Cosa le ha insegnato questa esperienza?
Che vale sempre la pena di inseguire i propri sogni.

Quanti giorni avete impiegato?
Noi ne abbiamo impiegato quattordici, ma abbiamo portato a termine una navigazione che fino adesso solo quattro equipaggi sono stati in grado di completare in trent’anni di tentativi, quindi è per noi una grande soddisfazione.

Così come da tante soddisfazioni il suo lavoro come Pilota?
Certo!

Qual è il sacrificio più grande per un Pilota?
Apparentemente l’aviatore è una bella vita, così come quella del navigatore, però è piena di sacrifici. Si sacrificano gli affetti, la famiglia e si salta qualche festività, poi vi è l’alienazione sociale: l’appendice della nostra vita sociale è l’equipaggio; è un gran sacrificio che tutti noi Piloti, Assistenti di volo e naviganti marittimi mettiamo in conto, specialmente perché coinvolge anche chi rimane a terra ad aspettarci.

Durante i voli quanto è importante il rapporto tra i membri dell’equipaggio?
È davvero molto importante, l’equipaggio è la forza che anima le operazioni di volo. L’aeroplano è un bellissimo oggetto pensato da ingegneri e tecnici, però è un pezzo di ferro che senza l’equipaggio non volerebbe. L’equipaggio è quel “supereroe” che nella sua totalità fa volare l’aereo per mezzo di tutte quelle operazioni di volo che, seppur ripetitive, sono complesse e sofisticate. L’equipaggio è la massima manifestazione del team work.

Questo di cui ha parlato è l’aspetto tecnico, e per quel che concerne l’aspetto umano?
Con i membri dell’equipaggio si diventa una famiglia, e con alcuni si instaura un grande rapporto di amicizia. C’è sempre un forte legame, anche se poi quando ci si saluta non sappiamo mai quando ci si potrà rivedere: può capitare che magari un collega lo si rincontri dopo dieci anni a motivo dei differenti turni. Sono ventun anni che volo e c’è qualcuno che non ho mai conosciuto.

Lei è un Pilota di medio raggio?
Esatto, e volo su un Airbus A320.

Cosa può dirci del panorama che vede dal suo ufficio, ovvero dalla cabina di pilotaggio?
Posso dire che ogni volta che mi capita di volare sopra il Mediterraneo provo un grande benessere, in particolare quando sorvolo la Sardegna. Per i miei gusti personali, un atterraggio ad Alghero o a Cagliari non ha niente da invidiare ad un atterraggio fatto a Tokyo.

Cosa significa essere un Pilota?
Diciamo che la vita intera è vincolata un po’ dal senso professionale del dovere, dalla cura dell’aggiornamento professionale e poi da tutti quegli aspetti psicofisici che non possono essere mai tralasciati. Anche al di fuori del nostro lavoro non ci sono concessi eccessi, dal momento che poi non dovremo stare dietro ad una scrivania, ma avremo tra le mani una grandissima responsabilità: la vita di chi sta a bordo. Quindi fare il Pilota vuol dire esserlo anche quando si è a casa e nella vita privata.

Dati i tanti sacrifici è un lavoro che si può fare solo se muniti di una grande passione. È corretto?
Certo. È una professione che si fa per passione, una passione che ci portiamo fino alla pensione, al di là dei contratti che possano cambiare in peggio o in meglio.

Chi è Tullio quando non veste i panni di Pilota?
Quando non vesto i panni di Pilota sono semplicemente un padre che quando torna a casa da la sua priorità ai suoi figli: Camilla e Stefano. Devo confessare che il ruolo di padre è quello che mi da le maggiori soddisfazioni.

Che consiglio può dare ai giovani che vorrebbero intraprendere la sua professione?
Ai giovani consiglio di valutare la propria motivazione, perché anche se il lavoro come Pilota è uno dei mestieri più affascinanti ha alle spalle tanti sacrifici, con un inizio di carriera tutta in salita. Bisogna studiare tanto per arrivare a pilotare un aereo, quindi se una persona non è motivata ma è solo attratta dalla parte superficiale, o per meglio dire, da quello che traspare da questa professione, rischia di lanciarsi in un’impresa dalla quale potrebbe rimanere deluso.

Sledet.com ringrazia per l’intervista il Pilota Tullio Picciolini, e ad maiora!

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