Intervista al maratoneta Roberto Zanda


“Ho realizzato che quella nello Yukon è stata una gara che ho fortemente voluto”

Intervista di Desirè Sara Serventi

Ha percorso tutti i deserti dei cinque continenti, dimostrando sempre grande determinazione nel raggiungere gli obiettivi da lui prefissati. Stiamo parlando di Roberto Zanda, meglio noto col nome di “Massiccione”, un nome che gli è stato dato non solo per la sua forza fisica ma soprattutto per quella mentale. Tante le imprese da lui fatte, una delle quali però, ovvero quella nello Yukon, ha preso inaspettatamente una piega inaspettata. Sledet.com ha raggiunto Roberto Zanda che con la grinta che lo caratterizza ha parlato delle sue avventure e del libro dal titolo “La vita oltre” scritto dopo la gara nello Yukon, e che racconta quella drammatica esperienza, e non solo.

La sua è stata un’infanzia non semplice. Vuol raccontarci?
Provengo da una famiglia molto povera. Avevo solo sette anni quando mia madre, per darmi la possibilità di mangiare e studiare, decise di portarmi in collegio. Inoltre, mentre gli altri ragazzi ogni tanto ricevevano la visita dei genitori, per me non arrivava mai nessuno, perché la mia famiglia abitava lontano. Ricordo che guardavo il cancello sperando sempre di scorgere la faccia di mia madre, ma purtroppo la rividi solo dopo qualche anno.

A quanto tempo risale la sua prima avventura?
Risale al periodo del collegio. All’età di nove anni avevo capito che, se volevo rivedere mia madre dovevo andare io da lei. Fu così che insieme ad un altro ragazzo decidemmo di scappare, ma mentre lui per paura si tirò indietro, io continuai con la mia impresa. Di fatto non riuscì a raggiungerla perché dopo un giorno, durante la notte, venni rintracciato sul bordo della strada da due anziani che mi riportarono in collegio. Agli occhi degli altri bambini ero diventato un eroe. Questa è stata la mia prima avventura.

Quando queste avventure iniziarono ad assumere importanza?
Quando venni lasciato dalla mia ragazza per scaricare un po’ la situazione, iniziai a percorrere delle lunghe camminate, e che dire, più passava il tempo e più queste distanze si facevano lunghe. Erano tantissimi i chilometri che percorrevo ogni giorno, e lo facevo solo per sfiancare la mente, per cancellare tutte quelle che erano le mie sofferenze interiori. Fu allora che incominciai a capire che lo sport mi poteva aiutare a ritrovare un po’ di serenità.

Lei ha fatto tante gare nei deserti. Che rapporto aveva con la solitudine?
Devo dire che non ho mai sofferto la solitudine, perché percorrere quei deserti in giro per il mondo, in quei silenzi, che gli altri chiamano solitudine, per me significava pace, serenità, famiglia. Per intenderci, quando rientravo nella vita civile, dopo un po’di tempo, mi ritornava il vuoto che avevo dentro, un vuoto che solo le gare riuscivano a colmare.

Quanti deserti ha percorso?
Ho percorso tutti i deserti dei cinque continenti. Tra questi vi è il Niger, che è una gara particolare di 600 Km non stop, il che vuol dire, che giorno e notte bisognava stare sulla pista. Ricordo sempre la bellezza di quel posto, con delle interminabili carovane di tuareg che attraversavano il deserto per andare a raccogliere il sale per poi rivenderlo nei mercati. Per me quello è stato il deserto più bello. Anche l’Iran è stata una esperienza bellissima, perché mi ha dato la possibilità di conoscere le usanze di tutti quei paesi che si trovavano all’interno del deserto.

Qual è stata la gara più lunga?
La gara più lunga è stata quella di 900 Km. Insieme ad altri 350 atleti, provenienti da trenta nazioni diverse, dovevamo attraversare la catena montuosa dei Pirenei, fino ad arrivare all’Atlantico. Lì ho vissuto quattordici giorni di sofferenza, così come gli altri atleti, dove i piedi erano veramente sfatti, e ogni giorno pensavi di chiudere la gara. Durante la notte, in mezzo alle foreste, dovevamo cercare l’orientamento in mezzo ai ghiacciai e bere dai ruscelli.

Ha raggiunto il traguardo?
Sì ho raggiunto il traguardo in compagnia di altri settantadue atleti, tutti gli altri si ritirarono. Questa gara mi ha fatto capire quanto ero fortunato nonostante i dolori, i sacrifici e le lacrime, perché si arriva anche a piangere, ma con un pianto che non è distruttivo, non è un abbandono, ma è il pianto di chi cerca forza, energia e coraggio, per superare quella difficoltà che sembra insormontabile.

Qual è stata l’esperienza più significativa?
Ve ne sono due che reputo molto significative. La prima è quella del Niger, dove da una parte vi ero io che percorrevo il deserto come un atleta tecnologico e dall’altra parte, a poca distanza da me, vedevo delle carovane di uomini che attraversavano il deserto senza fretta, senza orario. In quella situazione è una cosa automatica fare un confronto con loro. Osservandoli ti rendi conto che stai vivendo un momento bellissimo della tua vita. L’altra esperienza che resterà sempre dentro di me è lo Yukon, e non perché è stata una tragedia.

Potrebbe essere più preciso?
Molti pensano che guardandomi indietro, veda un qualcosa di brutto, di tragico, ma non è così. Non ho rimorsi per quello che è successo. Ho realizzato una cosa, nello Yukon è stata una gara che ho fortemente voluto. Mi sono allenato tantissimo e tutto precedeva bene, finché le cose non sono cambiate. Dico sempre che è stato un incidente di percorso della mia vita e non lo ricordo con dispiacere o con amarezza. La vivo come un’esperienza di vita che non è andata a buon fine.

Quanto durava la gara nello Yukon?
La gara durava sette giorni, durante il quale dovevamo percorrere a piedi quasi 500 Km. Voglio però precisare che a me non interessava il podio, ma volevo semplicemente portare a termine quella avventura, ovvero portare all’arrivo la bandiera dei quattro mori, che è la bandiera del mio popolo.

Conosceva l’ambiente artico?
No. Stiamo parlando di temperature che giravano tra i trenta e i cinquanta gradi sotto lo zero e io non conoscevo l’ambiente artico, per questo motivo i primi due giorni ho preferito stare insieme agli altri atleti.

Qualcuno si ritirò?
Sì dopo il secondo giorno iniziarono a ritirarsi, perché le difficoltà erano tante. Non era semplice trainare la slitta che pesava trenta chilogrammi, anche perché con quella, dovevi affrontare le montagne, e se l’atleta non aveva un buon carico muscolare e un buon allenamento ritornava indietro con questa. È la slitta che tira te, non sei tu che riesci a tirare lei.

Gli atleti cedevano solo a livello fisico o anche mentale?
Chi si ritirava cedeva non solo fisicamente ma soprattutto mentalmente. La mente è la vera forza.

Quanti atleti hanno partecipato alla gara?
Alla partenza eravamo in trentasette.

Furono pesanti i primi giorni?
Sì anche perché ero solo nella foresta con una temperatura che era di meno cinquanta gradi. A farmi compagnia c’erano solo le allucinazioni, che a quelle temperature è normale che ci siano.

Cosa accadde il quinto giorno?
Nell’ultimo punto di controllo, mi informarono che ero il secondo. Davanti a me vi era solo un sudafricano di trentacinque anni che si trovava a tredici miglia da me. Fu una grande soddisfazione perché ero un cinquantenne che era riuscito nonostante non fosse abituato all’ambiente artico a combattere.

Quando riprese la gara?
Era primo pomeriggio quando ripresi la gara. Vi era il sole che per alcune ore mi fece compagnia. Iniziò poi ad imbrunire, e fu così che mi addentrai nella notte con la temperatura che iniziava a scendere. Mi misi per questo motivo il giaccone artico. Mentre camminavo vedevo con la mia piccola torcia i paletti rifrangenti, gli illuminavo e gli vedevo come se fossero grandi richiami che mi dicevano: vieni qua, questa è la strada giusta.

Questa gara per lei stava per prendere una piega inaspettata. È corretto?
Sì quando arrivai all’ultimo paletto di segnalazione, mentre continuavo a percorrere il tragitto, mi resi conto che non riuscivo a trovare l’altro. Per noi quei paletti erano fondamentali in quanto davano le indicazioni della strada da percorrere. A quel punto tornai indietro alla sua ricerca, poi andai nuovamente in avanti, finché la terza volta inciampai, ma non so nemmeno dove e come può essere capitato, sta di fatto che andai fuori pista.

Poi cosa accadde?
Una volta andato fuori pista, caddi nella neve alta e quindi cercai di alzarmi velocemente non rendendomi nemmeno conto di quello che era successo, sentivo solo un caldo forte sul viso, che altro non era che la neve che mi colpiva.

Ha detto: cercai di alzarmi. Cosa le impediva di farlo?
La slitta, che mi stava ancorando verso il basso.

Quindi cosa fece?
Cercai in tutti i modi di sganciarmi, ma non ci riuscivo perché avevo dei guanti grandi che me lo impedivano, fu così che decisi di toglierli, anche perché avevo i sotto guanti. Una volta tolti, la slitta si sganciò e quindi feci cadere i guanti a terra, ma mi resi conto che ormai i sotto guanti erano bagnati. Fu in quel momento che iniziai a sentire un bruciore fortissimo alle mani. Con la torcia guardai le mani e mi resi conto che erano completamente bianche, a parte il palmo, che infatti è l’unica parte della mano sinistra che si è salvata.

Quella visione che cosa le fece comprendere?
Che stava arrivando il congelamento immediato perché avevo toccato la neve. Per questo motivo cercai di muovere verso il basso le mani per far affluire il più possibile il sangue, ma non vidi alcun risultato.

Quindi?
Cominciai ad agitarmi perché mi resi conto che tutto stava crollando, e in particolare le mani si stavano congelando. Iniziai ad urlare e a chiedere aiuto senza capire che ero troppo lontano dai punti di controllo per poter essere sentito. Iniziai a guardare se vedevo qualcuno ma senza alcun risultato, finché ad un certo punto vidi una luce e allora andai verso quella direzione, anche perché mi accorsi che quello che vedevo era una casa, dove all’interno avrei trovato dei soccorsi. Più mi avvicinavo a quella luce e più urlavo chiamando il dottore dicendo che avevo bisogno di aiuto. Seguendo quella luce mi addentrai nella foresta senza neanche rendermene conto, perché era completamente buio e più mi addentravo e più andavo a sbattere contro delle piante. Non so di preciso quanto ho percorso, la cosa che so, è che in prossimità di quella luce mi resi conto che non vi era alcuna casa, che non vi era alcuna luce. Tutto quello che vedevo in realtà era frutto di allucinazioni, e io ormai ero in ipotermia.

Cosa fece a quel punto?
Continuavo a girare vedendo case, muri, persone, finché mi resi conto che non riuscivo più a uscire dalla foresta e rientrare in pista.

Le cose stavano precipitando?
Sì infatti arrivò un momento in cui la disperazione era tanta, perché sapevo che sarei morto in quella foresta, ne ero consapevole. Urlai, finché ad un certo punto, non subentrò quel momento di rassegnazione, dove ormai avevo capito che era arrivata la fine. Per questo motivo cercai un posto dove potermi risposare e proteggere da quel freddo. Cercai in quella foresta un albero, un ripostiglio dove avrei potuto trovare un po’ di caldo.

Trovò qualcosa?
Vidi una pianta, una come tante altre, non so perché scelsi quella. Non potendo utilizzare le mani, essendo ormai congelate, utilizzai il gomito per tagliare le fronde e le misi a terra per proteggermi dal ghiaccio che c’era sotto. Mi sedetti sotto questa pianta e mi tolsi le scarpe. Mentre stavo sotto la pianta iniziai a rivivere il film della mia vita, ma ero sereno, perché nella mia vita avevo vissuto tante esperienze.

Poi cosa accadde?
Accadde che improvvisamente mi parve di avvertire una botta sulla schiena, e qualcuno che mi diceva: alzati prova a vivere! Non so cosa sia stato, so solo che questo colpo mi risvegliò da quel tepore. Fu allora che decisi di vivere, o qualcuno ha deciso per me. I religiosi dicono che sia stato un miracolo.

Si alzò?
Mi alzai di botto e urlai che volevo vivere e che non volevo morire al freddo. Cercai di rimettere i piedi dentro le scarpe ma senza riuscirci, perché i piedi ormai erano completamente congelati. Nonostante non sia riuscito a mettere i piedi dentro le scarpe, iniziai a muovermi in quella foresta continuando a dire che non volevo morire, ne tantomeno diventare il pasto dei lupi. Mi misi perciò a camminare, scalzo e senza guanti. In questo mio percorso notturno vidi tante persone che mi stavano guardando lungo i lati di questa mia camminata verso la vita. Ricordo che li guardavo e chiedevo aiuto, senza rendermi conto che non vi era nessuno, e che tutto ciò che vedevo era solo frutto della mia mente. Improvvisamente mi resi conto che erano solo delle allucinazioni e per la prima volta iniziai a percepire la solitudine. Mi guardai le dita, erano completamente viola e congelate, inoltre avevo la neve oltre le ginocchia. La neve che cadeva dagli alberi mi serviva come nutrimento, perché iniziai a mangiarla.

Poi improvvisamente accadde qualcosa?
Sì improvvisamente vidi il fiume Yukon completamente ghiacciato, e fu in quel momento che il mio cervello iniziò a diventare stratega. Incominciai a scendere verso il fiume e lì avrei dovuto prendere una decisione che mi avrebbe portato a vivere, dovevo infatti scegliere quale strada percorrere, quella di destra o di sinistra. Scelsi di andare a destra, o qualcuno mi fece andare in quella direzione, sta di fatto che iniziai a percorrere il fiume ghiacciato e fu lì che per la prima volta vidi i miei piedi, erano di un colore violaceo tendenti al nero. Guardavo i piedi con ammirazione e pensavo a quanta forza avessero, perché erano lì a combattere nudi, a meno cinquanta gradi.

Non fu semplice percorrere il fiume ghiacciato. È corretto?
Sì, non so per quante ore percorsi il fiume, so solo che cadevo in continuazione perché essendo sia i miei piedi che il fiume ghiacciato, mi trovavo in una situazione di ghiaccio su ghiaccio. Percorrendo questo fiume improvvisamente guardai il cielo e feci una invocazione, chiesi aiuto a Gesù. Gli dissi: Gesù prendimi i piedi e le mani ma lasciami vivo! Una invocazione forte, forse ne ho abusato, considerando tra l’altro che erano anni che non lo cercavo. Sta di fatto comunque che dopo un po’, notai in lontananza una motoslitta che sbucava dalla foresta e che si stava indirizzando verso il fiume. Iniziai perciò a urlare con quel poco di voce che mi era rimasta.

La persona sulla motoslitta si accorse del suo grido?
Inizialmente si fermò e si girò verso di me, come se non avesse capito la situazione si rigirò. Allora iniziai ad andare più velocemente verso di lui, ma continuavo ovviamente a cadere, finché quando mi trovai a pochi metri da lui, si girò. Ricorderò sempre il suo viso, mi guardò terrorizzato. Era la prima volta che vedeva in quel posto, a quelle temperature, un uomo scalzo e senza guanti. Chiamò subito i soccorsi con un telefono satellitare. Quando lo guardai vidi che aveva nella motoslitta dei paletti, lui infatti faceva parte dell’organizzazione, e stava raccogliendo i paletti della gara, gli stessi paletti che mi avevano portato in quella situazione. Dopo un po’ arrivò l’elicottero a prendermi e ricordo che durante il viaggio iniziai a sentire il freddo. Dopo cinque giorni per la prima volta sentivo il freddo.

Quanto tempo rimase scalzo sulla neve?
Rimasi scalzo per diciassette ore.

Quali erano le sue condizioni una volta arrivato in ospedale?
Quando mi portarono all’ospedale ero in setticemia, aveva un blocco renate e tante altre cose. Dopo dieci giorni quando i medici canadesi mi dissero che avrei vissuto, ma che dovevano amputare alcune parti del mio corpo, gli dissi: cominciate a tagliare, e lo dissi perché avevo capito che avevo centrato un traguardo, che non era quello della gara, ma avevo centrato il traguardo che è molto più importante, che è quello della vita. Ero felice, io dico sempre che noi diamo valore alla vita soltanto quando la stiamo partendo. Io sono uno di quelli che ho capito quanto è importante vivere a qualsiasi costo. Ringrazio il Signore per questa nuova vita che mi ha dato.

Dopo questa avventura ha deciso di scrivere un libro?
Sì ho scritto un libro “La vita oltre” edito da Baldini Castoldi, un libro che tra l’altro si può trovare in tutte le librerie e che racconta tutta questa storia e non solo.

“La vita oltre”. Come nasce il titolo?
Scegliere il titolo non è stato facile, anche perché il libro non racconta solo la tragedia. Quando le persone mi chiedevano come stavo vivendo in questa nuova condizione io rispondevo: nonostante tutto, oltre tutti miei dolori, oltre le mie sofferenze, oltre il non avere i soldi per comprarmi un paio di gambe sportive per tornare a fare le gare, oltre a non avere una casa su un unico livello, posso dire che: alla fine, con sacrificio, ne vale sempre la pena vivere! A quel punto mia moglie ha detto che “oltre la vita” poteva essere il titolo del libro, e così è stato.

La foto che c’è nella copertina del libro è stata scattata nello Yukon?
Sì quella è l’ultima foto che mi è stata fatta quando sono arrivato al punto di controllo, quando il cameraman mi ha detto: Roby tu sei secondo, tutti gli altri si sono ritirati. Nella foto si vede una specie di urlo verso la vita, che non mi è stata sempre benevola.

Qual è il messaggio che vuol dare ai lettori con il suo libro?
Il messaggio è quello di vivere la vita intensamente, boccone per boccone, passo per passo e soprattutto non lasciarsi abbattere da tutte le trappole che troviamo nella vita. La vita è tutta una avventura, siamo noi che poi prendiamo le strade che più ci interessano e ci coinvolgono.

Da tutti lei è conosciuto semplicemente come Massiccione. Ci svela chi le diede questo nome?
Massiccione me lo porto dal 2002. Dopo tanti anni di paracadutismo, dopo tanti anni di gare di triathlon in giro per il mondo, quando rientrai in Sardegna il giornalista Carlo Alberto Melis, mi diede questo nome di battaglia. Con questo nome lui voleva indicare una persona forte, non solo fisicamente ma soprattutto mentalmente, perché lui conosceva la storia della mia infanzia. Con Massiccione voleva indicare una persona tosta e che non molla mai, infatti, e il non mollare mai che quella notte mi ha salvato.

Progetti?
Io abito in una villetta su tre livelli, e ho molte difficoltà, quindi il progetto quasi immediato e trovare una casa su un unico livello con un giardino, perché ho bisogno di spazi dove riflettere. Centrato quel traguardo il prossimo sarà ripercorrere il deserto con le mie protesi bioniche e riprendere a fare una gara di 250 Km. Le gambe costano molto, appena avrò i soldi comprerò un paio di gambe nuove. Io penso che sia un traguardo molto fattibile, bisogna lavorare con un team, bisogna trovare gli sponsor, e vediamo se il Signore mi darà una mano anche in questo progetto.

Vuole aggiungere altro?
Sì vorrei menzionare mia moglie Giovanna. Quando la chiamarono dal Canada dicendole che doveva arrivare subito, si è caricata la valigia di calze ed è partita. Non ha messo giubbini o maglioni, ma ha pensato di prendere tante calze per proteggere i miei piedi dal freddo, nonostante sapeva bene che mi avrebbero amputato le gambe. Lei è stata con me, mi ha sempre accompagnato in giro per l’Italia, negli ospedali, mi ha accudito come si fa con un bambino. Ricordo che prima di partire per lo Yukon mi disse: se perdi un dito, ti mollo! E invece ho perso molto più di un dito, e lei è ancora qui a combattere al mio fianco.

Sledet.com ringrazia per l’intervista Roberto Zanda, e ad maiora!

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