“Tutte le malattie infettive più precocemente vengono curate, migliore è la risposta, perché si cambia in modo favorevole la storia naturale”
Intervista di Desirè Sara Serventi
Durante la prima ondata del coronavirus, il prof. Luigi Cavanna, Direttore del Dipartimento di Oncoematologia dell’ASL Piacenza, ricorrendo alla terapia domiciliare ha salvato la vita di tantissime persone. Se per molti la regola da seguire in caso di contagio è quella della “vigile attesa”, per altri la strategia migliore è quella di intervenire prontamente, in primis tra questi il prof. Cavanna che, avendo lavorato direttamente sul campo, sa quali farmaci somministrare ai pazienti per evitare che il virus possa creare gravi danni e indurli a ricovero ospedaliero, tra questi farmaci sicuramente non compariva la tachipirina, bensì l’idrossiclorochina somministrata insieme ad altri farmaci, la quale ha permesso una sostanziale riduzione del continuo afflusso verso gli ospedali. Nella prima ondata il prof. Cavanna ha seguito, recandosi direttamente nelle singole abitazioni, più di 330 pazienti, riscontrando una percentuale di ricovero sotto il 5% e con nessun paziente deceduto. Considerando l’ottimo risultato della terapia domiciliare, la sua attività è stata oggetto di un’inchiesta da parte del “The Times”, che lo ha elogiato a modello da prendere come riferimento. Sledet.com ha raggiunto il prof. Luigi Cavanna che, nonostante gli impegni lavorativi, si è dimostrato disponibile a spiegare l’importanza della terapia domiciliare, quali farmaci somministrare e anche molto altro.
Prof. Cavanna lei è il Direttore del Dipartimento di Oncoematologia dell’ASL Piacenza, durante la prima ondata ha salvato tantissime vite con la terapia domiciliare. Potrebbe ripercorrere insieme a noi il giorno in cui fu diagnosticato in Italia, nello specifico a Codogno, il primo caso di Covid?
Era venerdì 21 febbraio 2020, quando veniva diagnosticato il primo malato a Codogno. Come premessa vorrei dire che Codogno è molto vicino a Piacenza, sono dieci minuti di auto, e storicamente per tradizione i cittadini di Codogno e del basso Lodigiano così come tutti i paesi limitrofi, fanno capo a Piacenza per le loro attività. Per questo motivo anche le persone che manifestavano sintomi riconducibili al Covid si presentavano nel nostro ospedale. Ricordo che il notiziario del mattino di venerdì 21 febbraio diceva che a Codogno probabilmente vi era un primo paziente con Covid.
La notizia le creò un certo allarmismo?
La notizia non mi creò alcun allarmismo, infatti, quando il venerdì pomeriggio la direzione sanitaria del nostro ospedale organizzò una riunione urgente, ricordo che andai quasi con un po’di, non dico in sofferenza, ma come dire: non abbiamo tempo da perdere con questa riunione, perché sembrava lontano il problema, invece, dovetti ricredermi rapidissimamente.
Cosa accadde successivamente?
Il sabato, quindi il giorno successivo in cui fu diagnosticato il primo caso, iniziarono ad arrivare in ospedale tante telefonate da pazienti di Codogno che avevamo in cura come oncologia, e dicevano: noi dovremmo venire a fare la visita, però adesso non possiamo spostarci. Erano molto allarmati molto preoccupati. Il sabato stesso, quindi dopo 24 ore dalla notizia, a Piacenza, cominciavano ad arrivare malati in pronto soccorso con problemi respiratori e con febbre. Nel giro di tre giorni, la vita era completamente cambiata, la situazione era drammaticamente cambiata. Erano decine e decine i malati che arrivavano in pronto soccorso giorno e notte. Si aveva l’impressione che, qualcosa di mai visto prima, stesse accadendo. Tutti i giorni ci trovavamo in questa situazione di emergenza e ogni giorno, facevamo delle riunioni con la direzione Generale e Sanitaria e nello specifico con tutti i responsabili dei dipartimenti sanitari per cercare di fronteggiare questa grande catastrofe.
Cosa dicevate in queste riunioni?
Cercavamo di capire in che modo potevamo dare una risposta ai tanti malati che arrivano al pronto soccorso. Erano veramente tanti e di tutte le età. Le TAC andavano giorno e notte e continuavamo a produrre referti di broncopolmonite interstiziale bilaterale, e posso dire che erano referti quasi fotocopia. Le persone attaccate all’ossigeno aumentavano in modo esponenziale.
Quale era la vostra impressione in questa drammatica situazione?
Avevamo l’impressione che la situazione ci stesse sfuggendo di mano, nel senso che era talmente alto il numero di malati, che era quasi impossibile riuscire a gestirli tutti.
Quindi cosa avete fatto per cercare di creare nuovi spazi?
Rapidissimamente i reparti ospedalieri venivano trasformati in reparti covid. Prima i reparti medici, poi i reparti chirurgici. Le sale operatorie, non operavano più, in quanto venivano trasformate in rianimazione. Un intero ospedale del nostro territorio, l’ospedale di Castel San Giovanni fu il primo ospedale Covid italiano. Nel giro di pochissimi giorni ci fu una capacità da parte della direzione di trasformare i reparti che, detto in due parole, potrebbe sembrare facile ma nella pratica era davvero una situazione quasi catastrofica.
A causa dei continui contagi i pazienti continuavano ad aumentare. Cosa avete deciso di fare?
Durante una riunione, ricordo che all’incirca era l’ultima settimana di febbraio, decidemmo di aggiungere una nuova strategia. Ci rendemmo conto, in base alle numerosissime persone che giungevano in pronto soccorso, che tutti avevano in comune una caratteristica, ovvero, manifestavano: febbre, tosse e insufficienza respiratoria. La caratteristica rilevante però, è che questi sintomi duravano da diversi giorni, non era una cosa improvvisa, una situazione che si manifestava da un momento all’altro, poi sì, il peggioramento poteva essere improvviso, però la sintomatologia durava da diversi giorni, a volte da settimane. Molti di loro stavano a casa con la febbre da circa sette, dodici giorni e durante questo periodo prendevano solo tachipirina. Con la tachipirina la febbre scendeva, ma poi risaliva. La tosse diventava molto insistente, la mancanza d’aria prima era data da sforzi, poi si presentava anche a riposo con la conseguenza che, nel momento in cui l’aria mancava anche a riposo, era chiaro che dovevano chiamare il 118 per recarsi al pronto soccorso. Da notare però che, per la cura del Covid, in quel periodo, i malati ricoverati ricevevano da protocollo italiano tre pastiglie, una al mattino, una a mezzogiorno e una la sera, quindi tutto sommato una terapia facile da somministrare. Chiaramente una volta ricoverati molti di loro necessitavano di ossigeno, terapie di supporto ed eventualmente se non mangiavano veniva fatta loro la flebo. Osservando tutto questo ci rendemmo conto che era di fondamentale importanza la cura domiciliare.
Per quale motivo?
Perché dovevamo assolutamente evitare che il paziente arrivasse in ospedale con sintomi ben più gravi. Per questo motivo dovevamo agire tempestivamente, anche perché ricordiamo che i farmaci di cui stiamo parlando erano di facile somministrazione per bocca, potevamo dargli anche a casa del paziente.
Quindi cosa avete deciso di fare?
Decidemmo di andare a casa dei malati ai primi sintomi per vedere se riuscivamo a curare precocemente questa forma. Anche se il Covid era una malattia nuova, noi come medici, sapevamo che tutte le malattie infettive più precocemente vengono curate, migliore è la risposta, perché si cambia in modo favorevole la storia naturale, poi potemmo leggere le ricerche pubblicate dai colleghi cinesi (in inglese) che ci davano alcuni suggerimenti.
Prof. Cavanna, lei fu il primo a recarsi a casa dei malati?
Sì fui il primo insieme a Gabriele Cremona, capo sala del day hospital oncologico.
Cosa portavate con voi?
Innanzitutto le protezioni individuali, poi una borsa con dentro l’ecografo, perché chiaramente dovevamo far loro le ecografie del torace. Poi portavamo i farmaci, i saturimetri, che sono dei piccoli apparecchi che si mettono nel dito del paziente e rilevano la saturazione di ossigeno e poi portavamo tutto il necessario per il tampone.
In questo modo avete iniziato a curare i pazienti?
Sì. Abbiamo cominciato in questo modo a curare a casa i malati. I primi giorni i pazienti erano circa sei, sette, poi sono aumentati sempre di più fino ad arrivare a 15- 20 al giorno.
In due era difficile gestire tutti questi pazienti?
Sì però va detto che il 9 marzo il Ministero emanò un decreto che istituiva le cosiddette USCA, ovvero le unità speciali di continuità assistenziale formate da medici e infermieri. Chiaramente un conto sono due persone che devono far visita a tanti pazienti, un conto è avere più equipaggi formati da due persone che si recano nelle abitazioni dei malati.
Quale metodologia applicavano le USCA?
Nel territorio di Piacenza le USCA hanno applicato la stessa metodologia che noi utilizzavamo, quindi l’ecografia, i farmaci, il saturimetro, quindi il modello era lo stesso.
Prof. Cavanna, nella prima ondata quante persone ha seguito con la terapia domiciliare?
Personalmente nella prima ondata abbiamo seguito più di 330 pazienti con dei risultati veramente buoni, infatti abbiamo riscontrato una percentuale di ricovero molto bassa, sotto il 5% e cosa molto importante, non abbiamo avuto in questa prima ondata pazienti deceduti, gli abbiamo avuti nella seconda ondata purtroppo.
Per quale motivo ne avete avuto nella seconda ondata, o meglio dire cosa è cambiato?
Sicuramente intervengono più fattori, forse molti pazienti erano più complicati (con diverse patologie oltre al covid), ma si aveva anche minore disponibilità di farmaci (gli antivirali e l’idrossiclorochina erano stati sconsigliati da AIFA), comunque è difficile stabilire una causa sola.
La vostra attività è stata oggetto di un’inchiesta anche sul “The Times”. É corretto?
Sì, nella prima ondata l’idea di non aspettare i malati in ospedale oramai sfiniti, di andare a casa precocemente ed i buoni risultati ottenuti hanno interessato questa prestigiosa rivista ed i primi di aprile, quindi con solo un mese di attività domiciliare, il “The Times” ci ha dedicato una copertina e ha voluto fare un’inchiesta su questa modalità domiciliare da noi praticata, anche perché negli Stati Uniti il Covid stava arrivando.
Da quanto detto emerge che lei ai pazienti che visitava nelle loro abitazioni, non dava il paracetamolo ovvero la tachipirina. É corretto?
Certo. Il paracetamolo è un sintomatico che abbassa la temperatura e toglie il dolore, però all’epoca c’era un farmaco che, adesso nominarlo sembra quasi un sacrilegio, ovvero, l’idrossiclorochina che è un farmaco che è utilizzato ormai da tantissimi anni per altre patologie. I farmaci che noi utilizzavamo nello specifico erano: l’idrossiclorochina e un anti Aids. E poi associavamo, in base ai fattori di rischio delle persone, l’eparina, o un antibiotico l’azitromicina.
Quando somministravate l’eparina non si sapeva ancora che il Covid favoriva le embolie. Per quale motivo la davate?
La somministravamo perché la maggior parte dei pazienti erano allettati quindi a maggior rischio di trombosi e abbiamo poi capito che facevamo bene a darla considerando che erano a rischio di embolie, in quanto il Covid favorisce la trombo-embolia.
Davate anche l’antibiotico?
Solo nelle persone in cui avevamo il timore di una sovrapposizione batterica. Voglio precisare una cosa, in questo trattamento, l’idrossiclorochina e l’antiretrovirale erano nella linea guida applicata nel nostro Paese quindi, i malati che arrivavano in ospedale facevano questa terapia, non ci stavamo inventando niente di nuovo.
Qual è la differenza che avete potuto constatare somministrando l’idrossiclorochina e l’antiretrovirale precocemente, invece di aspettare l’ospedalizzazione?
La grossa differenza che abbiamo potuto vedere era che questa cura, se data precocemente aveva molto più successo che non data tardivamente, perché una volta che il danno polmonare è istituito, i farmaci antivirali, ovvero l’idrossiclorochina e il retrovirale fanno poco, fa più effetto il cortisone. Per quello che abbiamo potuto constatare direttamente sul campo ciò che è emerso è che l’idrossiclorochina funziona se data precocemente.
Mi permetta la domanda: allora perché non viene somministrata subito?
Secondo me, sono dei punti in cui la spiegazione verrà data a posteriori forse. Quando la comunità scientifica avrà raggiunto una maggiore serenità di giudizio. Non so dire perché ci sia stata questa grande ostilità su questo farmaco. Le istituzioni che hanno poi tolto l’idrossiclorochina dai protocolli, lasciando però a discrezione dei medici il suo utilizzo, sanno benissimo che una volta che un farmaco si sconsiglia, chiaramente i medici non è che hanno tanta voglia di riprescriverla.
Sono stati fatti degli studi riguardo i benefici di questo farmaco utilizzandolo precocemente sui malati?
Diciamo che si è applicato un metodo che in ambito scientifico non si fa mai.
Che cosa intende dire?
Intendo dire che si sono applicati i risultati di ricerche, fatte in malati ospedalizzati, risultati non favorevoli per l’efficacia di idrossiclorochina, bene, questi risultati sono stati applicati anche nei malati precoci. In altre parole, se l’idrossiclorochina non funziona nei malati ricoverati chiaramente non funzionerà neanche nei malati curati a casa precocemente. Questo modalità esaminata in maniera superficiale non fa una grinza, ma va detto che nel paziente in malattia precoce, l’idrossiclorochina ha un effetto antivirale e anche antinfiammatorio, quindi va da sé, che è molto diverso l’effetto se viene data tardivamente. Per intenderci: se io lavoro in giardino e mi buco la mano con un chiodo sporco di terra, che può portarmi il tetano, se l’acqua ossigenata la metto dopo dieci o quindici giorni, aumenta il rischio di ammalarmi di tetano, rischio che invece viene molto ridotto se la utilizzo subito. Applicando lo stesso metodo della cura tardiva o precoce di idrossiclorochina nel COVID, concluderei che l’acqua ossigenata non serve per disinfettare dal tetano, ma sappiamo invece che l’acqua ossigenata può funzionare nel sospetto di ferite da tetano, perché il tetano cresce in assenza di ossigeno.
Perché allora non si decide di somministrarlo subito prima che il paziente mostri altre complicanze?
Io credo perché l’idrossiclorochina è un farmaco che costa molto poco e non vi è interesse da parte dell’industria a sponsorizzare studi su idrossiclorochina. Poi chiaramente va detto che i farmaci sono messi in commercio attraverso studi clinici da fase 3, che vuol dire, in modo molto allargato, ovvero, reclutando molti pazienti, invece, nessuna industria farebbe degli studi sull’idrossiclorochina su larga scala perché non è remunerativo sotto l’aspetto economico.
Quindi l’idrossiclorochina funziona sempre?
Se data precocemente, per una buona parte di pazienti è molto verosimile una sua efficacia, ovviamente non per tutti, perché qualcuno può peggiorare anche se curato precocemente a casa, però se non curate è chiaro che le persone arrivano in ospedale con sintomi ben più gravi. Per farla breve, molti malati con Covid non hanno bisogno di cure perché hanno forme quasi asintomatiche. Un’altra parte è poco sintomatica, e poi vi sono i sintomatici che sono una percentuale bassa, sono meno del 15% grosso modo. Nelle persone che hanno dei sintomi quali febbre che dura da due a tre a quattro giorni, tosse, dolori addominali oppure nausea, malessere, posso dire che più precocemente si curano meglio è. Oltre all’idrossiclorochina, un farmaco antivirale, il Remdesivir, si sta dimostrando efficace, sempre se usata non troppo tardivamente, ma può essere somministrato solo in ospedale per via venosa, se fosse possibile somministrarlo in ambulatorio e poi il paziente tornasse a casa sarebbe un successo.
L’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri ha pubblicato degli studi?
Sì e mi fa molto piacere la posizione dell’Istituto Mario Negri che è una istituzione molto importante. Ha pubblicato dei dati dove spiega che, utilizzando dei farmaci antinfiammatori, quindi non la tachipirina che è paracetamolo, si hanno buoni risultati e si riducono i ricoveri. Questi sono dei dati importanti che vanno proprio a consolidare quella che è stata la nostra esperienza e quella di tanti altri medici.
Gli antinfiammatori che effetto hanno?
Riducono il processo infiammatorio patologico che il Covid innesca nell’organismo o bloccano addirittura l’infiammazione, per questo motivo è importante la loro somministrazione precocemente in questa situazione.
Invece cosa può dire riguardo al cortisone?
Il COVID è una forma a 2 fasi: la prima fase è “virale”, la seconda “immunitaria” con danni infiammatori agli organi (polmoni e non solo). Il virus nei primi giorni si moltiplica, quindi dare il cortisone è sbagliato, va bene l’antinfiammatorio, e a mio avviso, va bene anche l’idrossiclorochina. Invece se dopo sette o dieci giorni compaiono sintomi respiratori importanti, allora è corretto dare il cortisone. Se infatti viene dato all’inizio può favorire lo sviluppo del virus, ma poi in settima o ottava giornata, il virus, ormai il suo danno l’ha fatto ed è la risposta immunitaria dell’organismo che crea danni, quindi a quel punto, diciamo che va potenziata la cura antinfiammatoria, con l’azione immunosoppressiva del cortisone in quanto blocca l’evoluzione e “può salvare” i polmoni.
Vuol dire qualcosa riguardo l’ultimo protocollo emanato riguardo le cure domiciliari?
Il Senato ha votato a larghissima maggioranza sulle cure domiciliari e questo mi ha fatto molto piacere anche perché non si può aspettare, con una malattia infettiva di questa entità, di andare tutti in ospedale. L’ultimo protocollo che ha emanato il Ministero comprende gli antinfiammatori e introduce una scala di valutazione per valutare la gravità del Covid ed è un passo avanti.
Cosa può dire riguardo i vaccini?
I vaccini sono assolutamente utili, però, usando un gergo medico direi: sono necessari ma non sufficienti.
Chi si vaccina può essere contagiato?
Il vaccinato può essere contagiato, ma difficilmente questo avviene e difficilmente si ammala in modo serio. Comunque, bisogna essere ancora prudenti perché ci sono descrizioni in letteratura che spiegano che le persone vaccinate possono contrarre il virus ma non si ammalano, però, lo possono trasmettere e quindi siamo ancora in una fase dove la prudenza ci deve essere anche tra le persone vaccinate. Poi è chiaro se saremo tutti vaccinati il discorso sarà diverso. Recentemente è uscita una nuova ricerca dove si legge che la risposta anticorpale è diversa in base all’età e posso dire che questo era intuitivo, perché le persone più anziane hanno una risposta anticorpale un po’ ridotta rispetto alle persone più giovani. Quindi il vaccino sicuramente è una buona arma, ma non deve e non può essere la sola.
Una sua opinione sul vaccino AstraZeneca?
Per quello che so sull’AstraZeneca, le problematiche severe che ha comportato sono prevalentemente in donne in periodo fertile, quindi è possibile che vi sia un collegamento con lo stato ormonale. Le persone che prendono la pillola anticoncezionale fanno periodicamente degli esami del sangue per vedere come è la loro coagulazione, perché gli estrogeni possono modificare la coagulazione quindi, è verosimile che il vaccino AstraZeneca sulle donne in età fertile forse dovrebbe essere visto con prudenza e cercare di capire più a fondo perché innesca questo meccanismo di trombosi e consumo delle piastrine, è per questo motivo che ci si sta orientando cercando di non somministrarlo in donne in età fertile.
Professore che fine hanno fatto quei malati non Covid?
Posso fare una semplice osservazione che anche prima del Covid gli ospedali non erano vuoti di malati, erano pieni come lo sono adesso. Quindi se lei mi chiede se sono tutti guariti la mia risposta è no! Molti di loro avranno diagnosticato il tumore in ritardo quindi saranno operati in ritardo e probabilmente aumenterà la mortalità per tumore. Parlo di tumore perché è l’ambito che mi compete. Se il tumore è diagnosticato precocemente può guarire, ma se ci sono metastasi, diventa molto difficile guarire. Stesso discorso per l’infarto. I dati ci dicono che sono aumentati le mortalità per infarto. In altre parole, se gli ospedali sono pieni di malati Covid, anche perchè non sono stati curati a casa, i posti letto per i malati non Covid, ovvero per i pazienti con ictus, o infarto, per citarne alcuni saranno necessariamente ridotti, così pure i posti letto nelle terapie intensive. In molti ospedali italiani nella prima ondata ma anche nella seconda ondata, sono state sospese molte operazioni per tumore. E quindi, questo è un altro problema che cova sotto la cenere, perché se ricoveriamo tutti i malati di Covid gli altri malati non possono essere ricoverati e di conseguenza non possono essere curati in modo adeguato.
La situazione è preoccupante?
Certo. Sono milioni gli screening oncologici non fatti nel 2020 e sono dati ufficiali delle Società scientifiche e vi sono tanti malati che non sono stati operati. I dati della letteratura ci dicono che la prognosi dell’infarto miocardico acuto è peggiorata nel periodo COVID anche per la paura delle persone di andare in ospedale e contrarre il Covid, e questo non è un problema trascurabile. Quindi l’unica cosa che si può fare per gestire tutti i malati è quella di curare precocemente i pazienti a casa, almeno una buona parte di essi.
Vi è un’esperienza che l’ha segnata più di altre in quest’anno?
Sono tanti i ricordi che ho e sono molto vivi. Ricordo un signore che abbiamo visitato a casa e che era allettato e in condizioni molto compromesse in quanto aveva un tumore in fase molto avanzata. Lui aveva il Covid e faceva fatica a stare seduto e per questo motivo abbiamo insistito, insieme all’infermiere, per ricoverarlo da noi, considerando che, il nostro reparto, in quel periodo era diviso in due sezioni: una sezione per i malati Covid e l’altra per i non Covid. Per farla breve, lui non volle assolutamente essere ricoverato perché diceva che se l’avessimo ricoverato, nonostante la fiducia che aveva in noi, sarebbe morto solo, e lui non voleva questo. Ci disse che voleva stare vicino a sua moglie. A quel punto abbiamo continuato a visitarlo a casa e dopo quattro giorni ha iniziato, a stabilizzarsi, a migliorare, riprendendo a mangiare e ad avere meno febbre. Questo paziente ora si alza dal letto, esce di casa e riesce a camminare per brevi tratti. Di questo siamo molto felici.
Cosa può dire sulle varianti del virus?
Posso dire che gli antinfiammatori funzionano probabilmente anche nelle varianti, ma ovviamente, la cosa importante è un intervento precoce a casa del malato. Quindi appena una persona sta male deve avvisare e deve ricevere una risposta concreta e tempestiva. Per questo motivo è molto importante il lavoro fatto dalle USCA. Quindi, d’accordo fare i vaccini, ma sviluppare anche la cura sul territorio, sviluppare la ricerca è un altro aspetto molto importante.
Sui pazienti Covid si possono somministrare gli anticorpi monoclonali?
Certo. Gli anticorpi monoclonali sono delle proteine che in oncologia usiamo da decenni. Sono proteine prodotte in laboratorio dirette verso bersagli specifici che sono, in questo caso, sul virus, lo colpiscono e lo uccidono. Il limite di questi farmaci però, è che bisogna portare il malato in ospedale fargli la flebo e poi portarlo a casa, è comunque disagevole perché il paziente va isolato anche in ambulanza, quindi non è come fare la cura a casa però è un’arma in più, si pone lo stesso problema del Remdesivir. Mi auguro che un domani sia gli anticorpi monoclonali sia il Remdesivir si possano somministrare anche a casa.
Il plasma?
Nel plasma vi sono gli anticorpi “naturali” che possono essere utilizzati. Se ne parla poco, però ha tutta la sua validità, infatti se un malato ha il Covid e poi guarisce, dopo qualche settimana nel suo sangue aumentano molto gli anticorpi, infatti si può fare il dosaggio e se il paziente ha un dosaggio alto di anticorpi si può prelevare il suo plasma, e tenerlo a disposizione. In diversi ospedali si sta utilizzando questa terapia anche se a mio avviso, non ha ricevuto il meritato successo che doveva avere.
Cosa può dire riguardo ai lockdown?
Vorrei dire che, quando sento i miei colleghi in televisione che parlano e dicono che bisogna fare dei lockdown duri provo una profonda tristezza, perché i medici anche i pensionati, uno stipendio ce l’hanno comunque, chi chiude le sue attività invece non ha uno stipendio, chi perde il lavoro non ha più uno stipendio… Per questo motivo, come medico, devo fare di tutto per evitare che si arrivi a nuovi lockdown e l’unica cosa che posso fare per evitarlo è chiaramente quella di puntare a dare il massimo come professionista e coinvolgere altri professionsiti come ad esempio abbiamo cercato di fare con le cure precoci per evitare un peggioramento e un sovraffollamento negli ospedali.
Cosa rappresenta per lei il suo lavoro?
Rispondo a questa domanda con quello che c’è scritto nell’introduzione dell’Harrison, che è uno dei testi più diffusi in tutto il mondo, per quel che concerna la medicina interna. L’introduzione dice che il medico deve avere una grande componente umanistica e che deve avere lo stesso rispetto e la stessa attenzione nei confronti del vagabondo lamentoso come dell’eroe stoico, quindi, rispetto del malato indipendentemente dall’estrazione sociale. Poi aggiunge che il medico aiuta una persona nel momento di maggiore bisogno, ovvero, quando viene meno la salute e questo è una motivazione molto forte che ogni medico dovrebbe avere.
Che consiglio può dare alle persone che leggeranno l’intervista?
Il consiglio è di non credere alle apparenze e di verificare tutto ciò che viene detto. Anche in ambito scientifico: una ricerca deve essere letta attentamente ed in modo critico, non leggere solo il riassunto. Bisogna verificare sempre. Il dubbio clinico è importante, soprattutto per i medici, perché le certezze, quando non sono tali, possono fare danni enormi.
Vuole aggiungere altro?
Sono convinto che ognuno di noi, medico o altre professioni dovrebbe pensare a quello che si può dare/fare personalmente. Nei momenti drammatici come questo, ognuno, in base alle proprie capacità, possibilità, talenti, concezione della vita, dovrebbe pensare anche ad aiutare chi ha bisogno, chi è in difficoltà. All’ingresso del reparto ove lavoro abbiamo messo una targa con la scritta: “non c’è eccellenza se non c’è solidarietà”.
Sledet.com ringrazia per l’intervista il prof. Luigi Cavanna, e ad maiora!