Approda su Sky Cinema il film The Elevator: intervista al regista Massimo Coglitore


Un ruolo fondamentale in pellicole di questo genere sono gli attori e la loro interpretazione”

Intervista di Desirè Sara Serventi

Grande il successo riscosso dal thriller “The Elevator”, attualmente trasmesso su Sky Cinema, per il quale Massimo Coglitore è riuscito con la sua regia a coordinare adeguatamente tutti gli addetti ai lavori potendo così ottenere un risultato ottimale. Il film vanta un gran cast internazionale, tra questi vi sono James Parks, Caroline Goodall e Burt Young, attori che hanno lavorato con Tarantino e Spielberg, giusto per citarne alcuni. Quando Coglitore sta dietro la camera da presa niente viene lasciato al caso e tutto viene curato nei minimi particolari, potendo così portare sugli schermi un prodotto di qualità, per il quale, come si sa, viene richiesta la massima professionalità sul set senza concedere spazio ad alcuna distrazione. Sledet.com ha raggiunto Massimo Coglitore che, con la cordialità che lo caratterizza, ci ha parlato del film.

Su Sky Cinema è possibile vedere il film “The Elevator” dove lei ne è il regista. Come nasce l’idea di voler girare questo thriller? 

Il produttore Riccardo Neri, mi fece leggere la sceneggiatura di “The Elevator”, un thriller scritto da Riccardo Irrera e Mauro Graiani. Ho trovato lo script interessante con diversi elementi sui quali potevo lavorare. Sono un regista a cui piace anche dirigere script di altri, lo trovo intrigante e mi permette di essere molto più oggettivo. Sono un amante dei film di genere e quindi ho accettato subito. È stata una bella scommessa, perché contrariamente a quanto si potrebbe pensare, girare un film il cui 80% delle scene si svolgono dentro un ascensore, con due soli attori, è davvero un’impresa ardua. Un ruolo fondamentale in pellicole di questo genere sono gli attori e la loro interpretazione. Inoltre, volevo potermi muovere con la macchina da presa con una certa disinvoltura e per questo abbiamo costruito un ascensore con pareti smontabili.

Che cosa racconta? 

The Elevator si svolge quasi tutto dentro un ascensore, che gioca un ruolo da co-protagonista. È il confronto drammatico tra Jack Tramell, famoso presentatore televisivo americano, un uomo di successo, cinico, e una donna in cerca di vendetta, disposta a tutto, alla disperata ricerca della verità. Una sera, durante la festa del lavoro a New York, dove la città si svuota, la donna immobilizza l’uomo dentro l’ascensore del grattacielo dove vive e qui inizia un sadico quiz in cui Jack diventa concorrente e in palio c’è la sua vita.

The Elevator vanta un cast internazionale, tra cui: James Parks, Caroline Goodall e Burt Young. Su quali basi sono stati scelti gli attori? 

Si cerca sempre di scegliere attori che funzionino e siano adatti per il film che si deve girare e in una pellicola così difficile, claustrofobica, con dialoghi serrati, è proprio sull’interpretazione che ho puntato. Avevo la necessità di avere attori molto bravi che sposassero un progetto indipendente come questo. Dopo diversi provini e ricerche siamo giunti a loro che hanno accettato con entusiasmo. Mi sono messo al loro servizio e mi hanno ripagato con una strabiliante interpretazione.

Cosa può dire professionalmente parlando su di loro? 

Mi hanno colpito prima di tutto come persone, disponibili e generose. Non hanno mai fatto sentire il peso di aver lavorato con Spielberg o Tarantino e per me è stato un privilegio dirigerli. Sono grandi professionisti, degli attori straordinari che hanno donato tanto al film. Ho cercato di farli sentire sereni, rassicurandoli su tutto e provando a tirare fuori il massimo. Si è creata una grande armonia a livello umano, che è la base per poter lavorare bene.

Durante le riprese vi è stata qualche situazione in cui gli attori andavano da una parte opposta alla sua? 

È un bene che questo accada perché genera confronto e stimoli per il racconto. Sono sempre grato agli attori che portano del loro al film e al personaggio che interpretano ed è fantastico poi trovare una soluzione che magari non ti aspettavi.

Che cosa rappresenta l’ascensore? 

In questo caso è una sorta di prigione ma anche un confessionale dove i due protagonisti si scontrano e si confidano i loro segreti. Uno spazio asettico, isolato, dove ognuno è solo con se stesso, con le sue paure e le sue speranze. Con il suo andare su e giù l’ascensore rappresenta in qualche modo le dinamiche della nostra vita.

The Elevator è stato girato in cronologia? 

Il racconto si svolge quasi interamente in real time, per tanto, tranne le scene esterne, tutto quello che accade dentro l’ascensore è stato girato, per quanto possibile, in cronologia soprattutto per aiutare Caroline e James nello sviluppare la loro crescita emotiva.

Su cosa ha scelto di puntare la sua regia? 

Cerco sempre di stare al servizio della storia che racconto con lo scopo di emozionare il pubblico. Prediligo il racconto classico, giro con carrelli e lenti movimenti di macchina, non sono per un uso indiscriminato della macchina da presa. In questo, un apporto notevole al film è stato dato da Vincenzo Carpineta, il direttore della fotografia. Metto sullo stesso piano storia, recitazione e aspetto tecnico, non si può fare a meno di nessuno di questi elementi e sono attento a tutte le componenti che stanno dietro un film. Amo il cinema di contenuti con un forte senso estetico ed è a quello che ho puntato con un’attenzione particolare ai dettagli e al “se tutto torna”. Non mi piace lasciare nulla al caso e niente di irrisolto e mi circondo di collaboratori che stimo artisticamente e umanamente. Un film è la somma del lavoro di tutti elaborato dallo sguardo del regista.

Quali sono state le scene più difficile da girare? 

Quasi tutte le scene dove i protagonisti interagivano con le porte dell’ascensore, costruita dentro Cinecittà. Queste porte si aprivano e si chiudevano con un congegno manuale pilotato da un macchinista. Capitava spesso che questo ingranaggio, non per colpa di chi lo manovrava, si bloccasse facendoci perdere del tempo e a volte anche la pazienza.

In The Elevator, quanto spazio ha concesso agli attori per l’improvvisazione? 

Gli attori fanno parte del progetto creativo, non sono marionette, quindi se nasce qualcosa di nuovo e di improvvisato, che funziona per il film, non posso che essere contento. Mi piace lavorare sull’improvvisazione, spesso nascono delle situazioni inaspettate ma molto interessanti che poi lascio nel film finito. Del resto, anche a me come regista capita di improvvisare sul set e come diceva Claude Chabrol, lasciarsi una porta aperta sul set è sempre utile.

Come regista cosa non ammette sul set? 

Non ammetto che si urli, esigo un silenzio religioso per permettere agli attori di stare concentrati e tirare fuori il meglio di loro e a tutto il resto della troupe di non distrarsi. Per esperienza personale posso dire che si lavora molto meglio così.

Per lei è buona la prima o preferisce coprirsi le spalle con più riprese? 

In passato, quando giravo in pellicola, mi è capitato qualche volta di dire “buona la prima”, e qualche rischio me lo sono preso visto che la pellicola era molto più delicata ed insidiosa del digitale. Non c’è una regola, dipende molto da come viene la scena, a volte mi bastano pochi ciak altre volte sono arrivato anche a venti. Non credo però all’esasperazione e alla ricerca di una perfezione che non esiste, anche perché dopo un po’ l’attore perde in freschezza, lucidità e concentrazione e non renderà più come nei primi ciak. Il segreto è preparare bene le scene prima di girarle.

Cosa può dire sull’attuale situazione dell’industria cinematografica italiana dovuta all’emergenza sanitaria? 

Ci sono indubbiamente parecchi problemi legati all’attuale situazione ma diverse produzioni, nel rispetto dei decreti e delle misure anti Covid stanno, anche se con fatica, portando avanti i loro progetti. Ovviamente tra tamponi, mascherine e rischi di contagio non è l’atmosfera idilliaca per girare un film ma bisogna comunque stringere i denti e andare avanti sperando che prima o poi tutto questo diventi solo un brutto ricordo.

Chi è Massimo quando non sta dietro la camera? 

Sono una persona semplice, riservata, con delle passioni che coltivo. Gioisco delle cose genuine e belle che la vita mi regala e le condivido con la mia famiglia e con la mia compagna, perché come diceva Paulo Coelho “L’universo ha senso solo quando abbiamo qualcuno con cui condividere le nostre emozioni”. Sono una persona molto curiosa, leggo di tutto, studio sempre, vedo film in quantità esagerata e negli ultimi anni anche serie tv.

Che consiglio vuol dare a un giovane che vorrebbe intraprendere la sua professione? 

Bisogna farsi tante domande, capire realmente se quella di “fare film” sia una necessità oltre che una passione o un vezzo. Vedere tantissimi più film, anche del passato, studiare la tecnica cinematografica, avere tanta pazienza, curiosità e umiltà, scrivere una storia di cui si sente l’esigenza di raccontare e farne un corto. Oggi i mezzi a disposizione facilitano tutto questo. Chiedersi anche a quante rinunce si è disposti a fare per provare a raggiungere la meta. Consiglio di liberarsi prima possibile dall’idea che si cambierà il cinema e che tutti si accorgeranno di noi, non è così.

Progetti?

Ho approfittato di questi strani mesi e vari lockdown per scrivere la sceneggiatura di un film a cui tengo molto e che spero di poter realizzare in tempi ragionevoli. Tra i vari progetti in cantiere, sto scrivendo uno sci-fi/thriller insieme a Gigi Simeoni (fumettista e sceneggiatore) e vorrei portare sullo schermo un noir metropolitano scritto dalla sceneggiatrice e amica Camilla Cuparo.

Sledet.com ringrazia per l’intervista Massimo Coglitore, e ad maiora!

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