E’ il responsabile del dipartimento di medicina e preparazione atletica del Fulham
Intervista di Desirè Sara Serventi
Una carriera brillante e un alta professionalità, caratterizzata non solo dalla sua passione per il mondo del calcio, ma da un qualificato percorso di studi che gli ha permesso di farsi un nome: un nome degno di stima nel campo osteopatico, e non solo. Marco Cesarini ha lavorato in importanti società, e con grandissime figure calcistiche: allenatori, calciatori, ed equipe conosciute in tutto il mondo. Tante per lui le esperienze fatte col calcio inglese: ha infatti lavorato presso il West Ham United, e successivamente al Watford, per poi approdare al Fulham, passando prima per il Milan. I microfoni di Sledet.com hanno raggiunto Cesarini, che ha raccontato il suo percorso lavorativo.
Lei nasce come calciatore?
Ho iniziato giovane, ho giocato per il Giulianova, una squadra che ha prodotto tanti calciatori che poi sono arrivati anche in serie A. Il Giulianova aveva un settore giovanile abbastanza rinomato, e li appunto mi son formato, poi son passato a delle squadre dilettantistiche.
Ha gioacato anche in serie D?
Ho giocato in serie D con il Pineto e con il Nereto, e in questa categoria mi sono guadagnato la convocazione per la Nazionale under 18.
Poi c’è stato il salto dal campo di calcio a quello dell’osteopotia. Come è avvenuto questo passaggio?
Giocando a calcio mi sono accorto che non avevo le qualità per arrivare in serie A, allora ho detto: “Sai cosa faccio? Ci arriverò comunque, facendo l’Osteopata”.
Quindi?
Mi sono iscritto al Corso Universitario a Milano, e ho preso un periodo di aspettativa.
Come è arrivato al mondo dell’osteopatia?
Tramite il mio osteopata di quando ero bambino. Lui mi curava, mi metteva a posto, e a motivo della mia curiosità gli chiedevo sempre:”Ma come fai a guarirmi se mi fa male la gamba e mi tocchi la testa?”.
La sua curiosità ha trovato risposta?
La mia curiosità poi ha trovato risposta nello studio. Mi sono iscritto a questo corso di osteopatia e per pagarmi gli studi ho continuato a giocare a calcio in Lombardia: ho giocato nel Corsico, nel Brugherio e nell’Assago, praticamente mi pagavo così gli studi.
Lei quando si trasferì a Milano condivise la casa con Marcello Albino?
Quando mi sono trasferito a Milano il primo anno sono stato ospite a casa di Marcello, un calciatore della Pro Sesto.
Condivise l’appartamento anche con l’attuale allenatore del Pescara, Massimo Oddo?
Esatto, con Oddo siamo molto amici. Massimo era uno dei miei pazienti, delle mie cavie, mentre studiavo.
Terminati gli studi, per lei è arrivato subito il lavoro?
Ho avuto la fortuna, appena terminati gli studi, che Gianni De Biasi stava passando dal Modena al Brescia, e al Modena giocava anche Marcello Albino, con cui avevo appunto condiviso l’appartamento, che gli disse: “Se vai al Brescia ti devo far conoscere questo ragazzo che vuole lavorare nel calcio, ed è molto bravo”. Quindi, mi ha chiamato De Biasi al telefono e mi ha chiesto se avevo voglia di fare questo provino, chiamiamolo così, anche se poi si trattava di un ritiro precampionato. E così ho iniziato! Devo dire che senza Marcello non sarei riuscito ad entrare così direttamente nel mondo del calcio.
Che successe alla fine del ritiro?
Alla fine del ritiro mi hanno proposto il mio primo contratto di lavoro al Brescia.
Quell’anno al Brescia lavorò anche con Roberto Baggio?
Esatto, ho avuto la fortuna di lavorare con Roberto Baggio. Fu una grandissima esperienza.
Quanto rimase al Brescia?
Sono rimasto quattro anni, poi mi è stato proposto di venire in Inghilterra dato che il direttore sportivo del Brescia si era trasferito al West Ham United. Quindi accettai, e fui catapultato in questo mondo del calcio inglese.
C’era Zola nel West Ham United?
Zola è arrivato dopo un mese e mezzo che io ero lì, perché l’allenatore si era dimesso. Con Gianfranco ho lavorato due anni lì al West Ham, e poi la società è stata venduta e hanno deciso di cambiare un po’ le cose, e dunque quell’anno sono tornato al Brescia, dopo due anni che li avevo lasciati.
Questa volta quanto rimase al Brescia?
Per una stagione.
Poi?
Sono tornato in Inghilterra, ho avuto infatti il contatto con la famiglia Pozzo che avrebbe acquistato a breve il Watford, e che cercava una persona che comunque avesse esperienza nel calcio inglese, e sono stato a quel punto incaricato di seguire tutto l’aspetto medico, mentre prima mi occupavo prevalentemente di prevenzione.
Prima del nuovo trasferimento prese un Master alla Bicocca per poter svolgere al meglio questo nuovo incarico?
Esatto, ho fatto un Master di Sport Management alla Bicocca di Milano, e mi sono così formato, per iniziare questo nuovo lavoro come Responsabile Coordinatore dell’ambito Medico e Atletico.
Cosa faceva per l’esattezza?
Al Watford avevo sotto di me sia i medici che i fisioterapisti, ma anche i preparatori atletici.
Quanto è durata questa esperienza col Watford?
E’ durata quasi tre anni.
Poi che è successo?
Poi sono stato chiamato dal Milan quando c’era Inzaghi. La società rossonera voleva una figura come me, che curasse la fisioterapia con un occhio però alla prevenzione. Ho quindi deciso di trasferirmi a Milano, anche perché mi sarei avvicinato a casa.
Le cose mentre lei stava al Milan sono un po’ cambiate?
Esatto, infatti Inzaghi è stato sostituito alla fine del campionato.
Al posto di Inzaghi arrivò Siniša Mihajlović. Come si trovò con lui?
Mi sono trovato benissimo con Mihajlović, infatti non ho avuto nessun problema. Quando è arrivato ha portato con se il suo staff, ma poi ha confermato alcune persone che c’erano già, tra cui appunto me. Grande merito a Mihajlović che devo dire si è comportato benissimo con me, nonostante non fossi del suo staff. Mihajlović è una grandissima persona, come tutti quelli con cui ho lavorato. Siniša si porta sempre dietro il suo staff, e devo dire che come staff sono stati unici. Sono ancora in contatto con loro, e ci sentiamo spesso.
Nonostante si sia trovato benissimo, alla chiamata del Fulham non ha saputo resistere?
Anche in questa occasione devo dire che Mihajlović si è comportato in maniera egregia, anche e sopratutto, quando gli ho comunicato che ero stato contattato dal Fulham e che avrei avuto voglia di tornare in Inghilterra. Lui infatti mi disse che era contento per me se volevo andare, tra l’altro conosceva l’allenatore del Fulham, perché era stato un suo compagno di squadra, ed era serbo come Siniša.
Quindi, nel 2016 venne ingaggiato dal Fulham, e si trasferì nuovamente in Inghilterra?
Ho deciso di trasferirmi di nuovo in Inghilterra perché conosco l’ambiente inglese, e so quelli che sono i pro e i contro, perché ci sono anche i contro naturalmente, però per quel che riguarda il mio lavoro nell’ambiente inglese sicuramente c’è una cultura un pochino più strutturata e organizzata.
Lei si trova più a suo agio sui campi inglesi?
Diciamo che mi trovo più a mio agio rispetto all’Italia, dove magari le cose sono un pochino più emozionali.
Che cosa intende dire?
In Italia si tende molto di più ad andare dietro al risultato sportivo, mentre in Inghilterra si tende a essere un pochino più razionali: anche una sconfitta non è vista come un dramma, come invece accade in Italia. Poi il discorso culturale è sicuramente un po’ differente. In Inghilterra, tanto per capirci, si può uscire tra gli applausi anche dopo una sconfitta, cosa che in Italia è rarissima da vedere.
Mi permetta, ma neanche una retrocessione è vista come un dramma?
In Italia una retrocessione è un dramma sportivo, in Inghilterra invece una retrocessione rappresenta un momento di sconfitta, ma è anche un occasione per poi ripartire.
Cioè?
Nel senso che non è la fine del mondo se si retrocede, perché l’anno successivo, si cerca di vincere il campionato. I risultati ovviamente sono importanti per tutti, ma si è meno legati al risultato.
Cosa può dire riguardo l’aspetto medico?
Per l’aspetto medico, come anche in Italia, c’è un grande rispetto riguardo alla prevenzione. Diciamo che qui però ci sono più mezzi, i budget sono molto più ampi, e questo permette di poter anche esplorare delle situazioni che in Italia magari sono sconosciute a causa dei fondi.
In Italia a suo parere gli occhi sono puntati più sull’aspetto sportivo?
In Italia si tende più ad investire sull’aspetto sportivo, rispetto ad aspetti che possono essere comunque importanti. Poi logicamente, ci sono le grandi squadre che sono sicuramente organizzate come le squadre inglesi, anzi, a gran voce posso dire che non hanno nulla da invidiargli. Il Milan, la Juventus, l’Inter, la Roma, cioè le grandi squadre, hanno le risorse e le persone per organizzarsi nella stessa maniera in cui si organizzano le squadre inglesi. Voglio precisare che noi in Italia abbiamo tantissime persone valide, dirigenti validi, anzi ne abbiamo anche da insegnare. Abbiamo infatti tanti esempi di altissimo livello, non solo tra gli allenatori che sono così validi e importanti tanto da essere ricercati all’estero, ma anche in ambiti collaterali: ad esempio lo staff del Chelsea è quasi completamente italiano.
Lei al Fulham come si trova?
Mi trovo molto bene, e spero che questa avventura prosegua. La squadra ha una grandissima potenzialità, e ha il progetto di risalire al più presto in Premier League. È una categoria che loro hanno fatto per tredici anni consecutivamente, è uno dei club più attivi di Londra, con una grandissima tradizione: insomma è un peccato che ci sia stata questa retrocessione tre anni fa.
Al Fulham è stato ingaggiato come Responsabile Medico della Squadra?
Esatto, sono il Responsabile del Dipartimento di Medicina e Preparazione atletica.
Quindi?
Quindi supervisiono tutto ciò che riguarda il Dipartimento medico, dai medici ai fisioterapisti, ai preparatori atletici, e devo dire che mi è stata data la possibilità di cambiare alcune cose, e questo è importante.
Perché?
Perché non c’è niente di peggio che lavorare in un posto dove non puoi decidere. Qui al Fulham ho avuto la possibilità di ristrutturare un po’ il dipartimento, ho individuato delle persone che erano già nel club, e gli ho dato delle mansioni e delle responsabilità, quindi nel mio dipartimento di medicina ho un manager che ha la responsabilità dei fisioterapisti, dei medici, e di tutto ciò che è legato appunto alla medicina, alla prevenzione e alla riabilitazione. Poi c’è il dipartimento di preparazione atletica, di performance, e abbiamo inoltre un dipartimento di ricerca e sviluppo, dove cerchiamo di affrontare e capire quali sono le nuove frontiere. Uno dei valori del club è il pionierismo, dove si cerca di fare qualcosa di innovativo, e questo ci da molta fiducia ed entusiasmo.
Da dove deriva questa fiducia?
La fiducia deriva dal fatto che ci sono dei controlli, e tutto viene gestito in maniera molto rigorosa. Ci si incontra spesso con i media, il dipartimento di marketing, il direttore sportivo, e l’amministratore delegato; ci sono delle riunioni nelle quali si affrontano i problemi del club, e si fa anche un resoconto delle situazioni. La fiducia c’è, ma ovviamente è controllata.
Qual è la difficoltà che trova in questo lavoro?
Le difficoltà ci sono tutti i giorni, perché poi io mi interfaccio con tantissime persone ogni giorno, quindi il mio lavoro è molto vario. La difficoltà riguarda un po’ il livello di attenzione che devo mettere quotidianamente in tutto quello che faccio: devo essere sempre molto attento.
Come riesce a gestire lo stress?
Cercando di staccare completamente la spina quando la mia giornata di lavoro finisce. Il problema però, è che non finisce mai.
La differenza che ha notato rispetto ai calciatori italiani?
Una cosa che si nota nei calciatori inglesi, è che hanno sempre una bottiglia di acqua in mano: perché hanno questa grande cultura dell’idratazione che li viene inculcata sin da quando sono bambini, anche perché la prima causa degli infortuni muscolari è la disidratazione.
Quale reputa l’esperienza più significativa per la sua carriera?
Mi è successa una cosa quando ero al Brescia il primo anno con Roberto Baggio. Mi ricordo di una partita che si giocava ad Ancona. Baggio la mattina sale sul pullman per andare allo stadio, ed era completamente bloccato con la schiena, e il suo preparatore mi si avvicina e mi dice: “Marco guarda che c’è Roby che è bloccato”, e io risposi: “Cosa posso farci io se è bloccato?”, anche perché ormai l’allenatore aveva dato la formazione: quindi arriviamo allo stadio e io dico a Baggio: “Mettiti vicino al termosifone con la schiena”, e son riuscito a fargli una manipolazione che comunque gli ha dato un po’ di sollievo,permettendogli di giocare la partita. Alla fine ha fatto goal. A fine partita ho salutato la squadra e Baggio mi ha detto: “Oggi è merito anche tuo se io ho giocato e segnato”; questo lo ha detto davanti a tutti, e mi ha fatto davvero molto piacere. Questa cosa mi ha dato fiducia, anche perché è importante avere un riconoscimento, e nel calcio è difficile che ti dicano bravo. Questo è uno degli episodi che ricordo con più piacere perché era il primo anno che lavoravo, e poi Baggio è uno dei più grandi calciatori che abbiamo avuto.
Cosa rappresenta per lei il calcio?
Il calcio per me è più di una passione. Mia moglie non si spiega come mai io stia sempre lì a guardare il calcio, e infatti mi dice: “Ma tu eri li alla partita, e adesso devi vederti anche i goal in tv?”.
E il mondo dell’osteopatia?
L’osteopatia è un mondo molto affascinante, perché noi osteopati ci differenziamo un po’ dalla norma: siamo un pochino più aperti; cerchiamo di risolvere la causa del problema all’origine, non focalizzandoci solo sul sintomo, ma cercando di capire perché quella sintomatologia è presente. Il fatto di essere così curiosi, e un pochino più attenti in certi dettagli, ci rende diversi rispetto ad altre figure professionali che sono più inquadrate, ed è comunque un bene che ci siano queste persone, perché secondo me l’osteopata da solo non può risolvere tutto, ma se si lavora in equipe con fisioterapisti, medici, e fisiatri, si possono ottenere grandi risultati, mantenendo comunque quella voglia di migliorarsi.
Dalle sue parole si evince una grande passione per l’osteopatia?
L’osteopatia rappresenta la mia seconda passione: sono e rimarrò sempre un osteopata, e cercherò di guardare sempre le cose da angolature diverse.
Come si rapporta con i calciatori?
Io dico sempre al mio staff che non bisogna essere troppo vicini ai giocatori, perché poi si rischia di perdere il ruolo, la funzione che noi abbiamo, ovvero quella di neutralità. Spesso ci si lega tanto ad un giocatore infortunato che magari ha bisogno di supporto, un supporto psicologico, e quindi, si entra molto in sintonia, rischiando di perdere però quello che è il focus. Il mio rapporto con i giocatori è un rapporto di maturità, dove c’è però il rispetto. Se loro hanno un problema possono parlarne, infatti noi facciamo tante domande: loro arrivano la mattina e devono rispondere ad un questionario dove c’è scritto se hanno dei dolori, come è il loro umore, gli chiediamo inoltre di fare dei meeting dove gli educhiamo sull’idratazione e spieghiamo loro il perché facciamo certe cose. Quindi il rapporto è di fiducia, di rispetto, cercando di mantenere quel rapporto di professionalità.
Qual è il sacrificio più grande in questa professione?
Stare lontano dalla mia famiglia. Loro stanno in Italia; mi hanno seguito al West Ham la prima volta, e mi hanno seguito al Watford la seconda volta, ma adesso i miei tre figli stanno crescendo, hanno le loro amicizie e non è semplice per loro cambiare, anche perché poi il mio lavoro è un lavoro instabile: non c’è la sicurezza di rimanere, perché possono cambiare le proprietà, possono cambiare le situazioni, e alla fine non è così scontato che si rimanga a lungo nella stessa squadra di calcio. Sono situazioni che vanno valutate di volta in volta, e sinceramente questa è una cosa che mi crea sacrifici, ma che purtroppo devo fare. I weekend da passare con mia moglie e i miei figli sono pochi. Diciamo che non è semplice. Questo è l’aspetto più duro, anche perché loro sono più penalizzati rispetto a me che faccio una cosa che mi piace e per la quale ho passione, e che mi permette quindi di compensare questa mancanza affettiva. Loro questa compensazione non potranno mai averla come ce l’ho io.
Vuol dare un consiglio ai giovani che leggeranno la sua intervista su Sledet.com?
Il consiglio che do è quello di osare, perché bisogna tentare. Nella vita i rimpianti non servono a nulla, quindi secondo me bisogna buttarsi quando c’è la possibilità. Non bisogna avere paura di cambiare, perché io l’ho fatto quando ero ragazzo, ho fatto dei cambiamenti per andare a Milano, e ho fatto lo stesso per andare a Londra. Ho trovato delle situazioni difficili che mi hanno aiutato a migliorare. Certo, bisogna avere un po’ di fortuna, ma quella uno se la deve creare. Il consiglio quindi che do è quello di tentare, provare, chiedere, e di essere curiosi.
Progetti?
Io mi pongo dei target e degli obiettivi a breve termine. Adesso spero di riuscire, attraverso la competenza delle persone che mi circondano, di raggiungere l’obiettivo della Premier League, perché ho voglia di vincere nello sport. Questo è il mio prossimo obiettivo, e spero che si realizzi presto, ma se non si dovesse realizzare subito, un giorno accadrà, perché con il Fhulam ci sono le premesse affinché ciò avvenga. L’anno scorso l’obiettivo era mantenere la categoria perché si rischiava la retrocessione, questo obiettivo è stato raggiunto. Quest’anno invece l’obiettivo è quello di cercare di arrivare ai play-off.
Se le chiedessi chi è Marco, cosa risponderebbe?
Una persona curiosa!
Sledet.com ringrazia Marco Cesarini per l’intervista, che senza troppi giri di parole si può definire un orgoglio tutto italiano. Ad Maiora!
Vorrei essere. Chiamata. Il mio nr è 3598491894. Una mia amica soffre di Fortidolori di schiena di acufeni