“In una patologia tempo dipendente come l’infarto acuto del miocardio, una comunità informata è una comunità con maggiori chance terapeutiche e di sopravvivenza”
Intervista di Desirè Sara Serventi
Svolge la sua professione con passione e dedizione, senza lasciare niente al caso ed è per questo che il suo nome è sinonimo di professionalità. Stiamo parlando del dottor Alberto Boi, cardiologo interventista che presta servizio presso l’azienda ospedaliera G. Brotzu di Cagliari. Un lavoro il suo che svolge con meticolosità e attenzione, ed è per questo che chi si affida alle sue cure sa benissimo che la sua vita è nelle mani di un medico competente e capace che, prima di essere un cardiologo, è una persona con una grande umanità che sa quanto è fondamentale instaurare un rapporto di fiducia con le persone che necessitano del suo intervento. Sledet.com ha raggiunto il dottor Alberto Boi che con grande cordialità ha spiegato in cosa consiste il suo lavoro e quali sono le patologie che si trova a curare.
Quando nasce la sua passione per il mondo della medicina e nello specifico per la cardiologia interventistica?
Credo di averlo sempre saputo, papà è un medico e a casa si è cresciuti a pane e cardiologia. I miei amici più cari mi chiamavano “il dottore” dai primi anni del liceo – potrei richiedere il copyright a Valentino Rossi – osmosi familiare nonostante conoscessi a malapena l’effetto di una aspirina. In quarta Liceo c’è stata la scelta definitiva, ero molto combattuto tra la Facoltà di Fisica, erano anni in cui mi innamorai dell’astrofisica, e la Facoltà di Medicina, prevalse la continuità… In realtà mi invaghii solo dell’universo e della sua immensità, quando vidi il programma di ciò che avrei dovuto studiare prima di pensare a buchi neri e teoria delle stringhe, mi vennero i brividi e abbandonai l’idea. Con la cardiologia interventistica, invece, fu amore a prima vista! Mi bastò entrare in un laboratorio di emodinamica, vivere l’ambiente della sala, sentire l’adrenalina di una angioplastica primaria durante l’infarto acuto per capire che sarebbe stata la mia strada.
Vuol parlarci del suo percorso formativo?
Estate del 2001, la stagione del tanto temuto test di Medicina, altri tempi per fortuna, riuscii a passare al primo tentativo con un punteggio, oggi, per niente brillante. I sei anni successivi all’università sono volati con più merito, 36 esami sempre in regola, preparati con metodo militare insieme a due colleghi fenomenali. Nel 2007, prima la laurea con il massimo dei voti, poi il difficile concorso per entrare in scuola di specializzazione. Dopo due anni di internato in clinica cardiologica avrei conosciuto il mio destino, lo superai. Finalmente l’emozione di iniziare la mia avventura come medico specializzando. Nel 2010 chiesi ed ottenni di completare la scuola di specializzazione all’Ospedale Brotzu di Cagliari, prima in Cardiologia e poi in Cardiologia Interventistica, l’ospedale dove ho imparato tutto, in cui sono maturato, che mi ha reso il professionista che sono oggi; insomma l’azienda che sarebbe diventata a tutti gli effetti la mia casa.
Chi è il cardiologo interventista?
Un titano della mitologia greca! Scherzo. La figura del cardiologo interventista ha compiuto 40 anni nel 2017. Dobbiamo tutto ad un pioniere di nome Andreas Gruentzig, medico tedesco, che nel settembre del 1977 intuì la possibilità di trattare la stenosi – restringimento – di una arteria del cuore attraverso l’uso di una sonda con palloncino gonfiabile alla sua estremità anziché il classico ed invasivo intervento cardiochirurgico di by pass aorto-coronarico; tecnica che peraltro lui stesso aveva già sperimentato nelle arterie delle gambe. Fu la prima angioplastica coronarica al mondo, eseguita in un giovane adulto di 38 anni, funzionò come nessuno avrebbe mai immaginato, da allora il trattamento della malattia coronarica non fu più lo stesso.
Ovviamente negli anni la figura dell’interventista si è evoluta tantissimo consacrandosi negli ultimi 20 anni grazie al raffinamento delle tecniche per le stenosi coronariche più complesse e grazie alla più recente possibilità di trattare numerose cardiopatie strutturali come la stenosi aortica e l’insufficienza mitralica, fino a 10 anni fa patologie ad esclusivo trattamento cardiochirurgico.
Insomma, il cardiologo interventista è a tutti gli effetti – scherzosamente – un idraulico del cuore, riapriamo arterie e valvole, qualche geloso ci chiama tubisti, in realtà siamo tanto di più.
Lei è sia un cardiologo clinico che interventista. Per cosa si differenziano queste due figure?
Partiamo da un presupposto importante, per l’ordinamento formativo italiano esiste il cardiologo, anzi secondo le più moderne nomenclature lo specialista in malattie cardiovascolari. Pertanto tutti gli specialisti in cardiologia si formano nella medesima maniera. Grazie all’attuale organizzazione delle scuole di specializzazione, la componente clinica e molti esami strumentali come l’elettrocardiogramma e l’ecocardiografia base, sono patrimonio culturale di tutti i neo specialisti. Tutti i cardiologi sono formati per trattare patologie come l’ipertensione, l’ipercolesterolemia, l’angina pectoris stabile, la fibrillazione atriale, lo scompenso cardiaco, per citarne alcune.
Poi ci sono quelle che potremo definire iper specializzazioni. Le conoscenze in medicina ed in cardiologia galoppano, ciò rende necessario che all’interno della stessa disciplina alcuni specialisti approfondiscano più alcuni campi rispetto ad altri. Nel caso specifico, il cardiologo interventista, dopo un ulteriore percorso di training, impara a trattare invasivamente patologie come l’infarto acuto del miocardio, l’angina pectoris, la stenosi aortica, l’insufficienza mitralica, i difetti cardiaci congeniti, utilizzando sonde e cateteri, per intenderci, con coronarografia, angioplastica coronarica con palloncino e con impianto di stent, TAVI, e altro ancora.
Per svolgere il suo lavoro ci vuole una grande manualità chirurgica. Qual è la parte più complicata di questa professione?
Come tutte le discipline che richiedono l’uso di strumenti è necessario un buon livello di manualità, ma ciò non è sufficiente. Per rendere l’idea sfrutto una metafora calcistica: esiste il calciatore dedito al sacrificio ma con due piedi sinistri e c’è il calciatore dotato di grande talento ma un po’ pigro, entrambe le condizioni non sono sufficienti per definirne valore o qualità.
Poi c’è il calciatore che si si distingue perché al talento innato unisce la serietà negli allenamenti, impreziosita da una visione di insieme scaturita dalla maturità della sua testa, il tutto inserito in un gioco di squadra vincente.
Nella mia visione romantica della professione c’è la stessa complicazione, la manualità va coltivata attraverso l’esecuzione di un alto numero di procedure, abnegazione allo studio di una scienza in continuo aggiornamento, testa educata alla riflessione, intelligenza emotiva per ricordarsi che non si vince mai una partita da soli… tentare di aspirare a questo standard, tutti i giorni, ad ogni livello di stress ed in tutti i contesti di emergenza è probabilmente la parte più complicata.
Lei è specializzato nel trattamento invasivo, potrebbe elencarci con quali meccanismi interviene nello specifico?
La cardiologia interventistica è una branca invasiva della cardiologia, ma non la si può definire chirurgia a tutti gli effetti. Nell’immaginario collettivo il chirurgo si contraddistingue per l’uso di pinza e bisturi, noi invece usiamo cateteri e palloncini. Il mio principale campo di intervento è il trattamento della malattia ostruttiva delle coronarie. Le coronarie sono le arterie che portano il sangue al cuore ed in certi pazienti possono andare incontro ad un fenomeno di invecchiamento precoce detto aterosclerosi. Stimolata da fattori di rischio come l’ipertensione, l’ipercolesterolemia, il fumo, il diabete, l’età; l’aterosclerosi si manifesta sotto forma di stenosi – restringimento – a livello della parete dell’arteria coronaria. Più è grave il restringimento, minore sarà il passaggio di sangue nell’arteria. Questa condizione, nota come cardiopatia ischemica, può manifestarsi clinicamente sotto forma di angina pectoris o col tanto temuto infarto miocardico acuto.
Qual è il lavoro del cardiologo interventista?
Il lavoro del cardiologo interventista è identificare e curare queste patologie. È un lavoro mininvasivo che si avvale dell’uso di cateteri plastici e strumenti dedicati. Mediante la puntura percutanea di un vaso arterioso, generalmente l’arteria radiale del braccio o l’arteria femorale della gamba, i cateteri si avanzano attraverso i vasi arteriosi del corpo umano. Utilizzando questi cateteri e l’uso di particolari fili metallici dette guide, si può raggiungere qualunque distretto arterioso del corpo umano, noi prediligiamo il distretto coronarico e cardiaco. Ogni nostro movimento è guidato radioscopicamente attraverso una macchina, chiamata tubo radiogeno, in grado di produrre raggi X. Una volta raggiunto il cuore col catetere, lo appoggiamo delicatamente all’origine della coronaria, dopodiché iniettiamo dentro l’arteria un “colorante”, il mezzo di contrasto, che ci permette di visualizzare la presenza della stenosi al passaggio dei raggi X.
Quando il restringimento della coronaria è tale da causare un ridotto flusso di sangue verso il cuore, la fase diagnostica della procedura, detta coronarografia, cede il passo all’intervento vero e proprio, la angioplastica coronarica. Sempre attraverso il catetere adagiato sull’ostio della coronaria, avanziamo un filo metallico sottilissimo, denominato filo guida, oltre il restringimento. Il filo guida rappresenta il binario sul quale possiamo posizionare, con rapido accesso e senza traumatismi, i cateteri muniti di palloncino, i reali protagonisti della plastica coronarica. Dopo aver identificato la posizione ottimale, gonfiamo il palloncino con un manometro esterno, all’aumentare della pressione cresce la dimensione del palloncino dentro l’arteria che dilatandosi schiaccia, letteralmente, la stenosi alla parete del vaso. Infine per evitare che la placca di aterosclerosi di cui è formata la stenosi ritorni alla sua posizione originale, completiamo l’intervento impiantando uno stent coronarico.
Cos’è lo stent coronarico?
Lo stent è una endoprotesi vascolare della dimensione di 2-4 millimetri, assimilabile ad una piccola rete metallica a tubo che viene espansa e fatta aderire alla parete del vaso in modo tale che questo risulti pervio in modo ottimale e più a lungo possibile. Al giorno d’oggi, sfruttando il medesimo principio del catetere, dei fili guida, dei palloncini e delle endoprotesi montate su stent, ci si è spinti verso distretti anatomici di dimensioni maggiori, pertanto quello che facciamo nelle coronarie e possibile traslarlo sull’aorta e nei disturbi strutturali del cuore, andando ad intervenire su valvole malconce o su difetti congeniti.
Che cos’è l’infarto acuto del miocardio?
L’infarto è la complicanza più temibile dell’aterosclerosi coronarica.
Cos’è l’aterosclerosi coronarica?
L’aterosclerosi coronarica è un fenomeno degenerativo della parete dell’arteria che progredisce con l’aumentare dell’età ma soprattutto con l’esposizione a determinanti fattori di rischio. I più temibili sono il fumo, il colesterolo alto, il diabete, l’ipertensione arteriosa e la predisposizione familiare. L’esposizione negli anni a questi agenti irritativi determina un fenomeno infiammatorio a carico della parete del vaso che si traduce nella formazione della placca aterosclerotica, un ammasso di grasso e cellule infiammatorie che modificano la composizione del vaso. Il destino di questa placca è molteplice, in alcuni casi la sua crescita viene rallentata o addirittura interrotta grazie al controllo dei fattori di rischio, all’eliminazione delle cattive abitudini ed all’uso di farmaci ipolipemizzanti come la statina. In altri casi la crescita della placca è graduale e lineare, fino a divenire una vera e propria stenosi che quando supera una certa dimensione rispetto alla dimensione totale del vaso, si manifesta clinicamente sotto forma di angina pectoris.
Infine, nei meno fortunati, la placca aterosclerotica, soprattutto quella vulnerabile e ricca di materiale grasso, può andare incontro ad una fissurazione, una vera e propria frattura del cappuccio che la delimita. La rottura di questo contenitore determina il rilascio nel sangue del materiale grasso contenuto nella placca che sollecita le cellule presenti nel sangue; queste, richiamate per riparare il danno vascolare, determinano una reazione abnorme organizzandosi in un grosso coagulo chiamato trombo.
Quindi?
Quindi, l’infarto acuto del miocardico non è altro che la morte circoscritta di una area del cuore che non riceve più sangue – ischemia – a causa dell’ostruzione acuta di una arteria coronaria. La coronaria si chiude per una trombosi endovasale innescata dalla rottura di una placca aterosclerotica andata incontro ad instabilizzazione.
Come si diagnostica?
Innanzitutto dai sintomi. Il dolore toracico oppressivo associato ad irradiazione a braccio sinistro e spalle, a sintomi neurovegetativi come nausea e sudorazione fredda, sono caratteristiche patognomoniche. Talvolta però si presenta atipicamente con dolore allo stomaco venendo scambiato per gastrite, soprattutto quando interessa la parete inferiore del cuore. Altre volte solo con affanno, con dolore alle spalle o alle braccia o addirittura ai polsi. I soggetti più a rischio per una sintomatologia atipica sono le donne, i pazienti diabetici e gli anziani. Più la sintomatologia è atipica maggiore è il pericolo che si arrivi ad una diagnosi e ad una terapia tardiva. Gli esami strumentali vengono in nostro aiuto: l’elettrocardiogramma, l’ecocardiogramma, gli indicatori di necrosi miocardica – la troponina – e dulcis in fundo la coronarografia.
Come si interviene?
Il gold standard del trattamento dell’infarto acuto del miocardio con vaso completamento ostruito è l’angioplastica primaria, prima la si fa e meglio è!
L’angioplastica primaria che vede noi cardiologi interventisti come principali protagonisti, è però solo l’ultimo atto di un percorso multidisciplinare.
Che cosa intende dire?
Intendo dire che tutto inizia dal paziente. In una patologia tempo dipendente come l’infarto acuto del miocardio, una comunità informata è una comunità con maggiori chance terapeutiche e di sopravvivenza. L’immediato allertamento del 118 da parte di un paziente sintomatico per dolore toracico sospetto, permette una precoce attivazione della rete delle emergenze cardiovascolari. Grazie a questo sistema particolarmente rodato nella regione Sardegna, si è in grado di trasportare in tempi rapidi un paziente con infarto acuto del miocardio, dal territorio ad un centro Hub dotato di laboratorio di emodinamica. Infatti, quando un paziente con infarto viene soccorso da una ambulanza medicalizzata è possibile eseguire al domicilio del malato un elettrocardiogramma che viene immediatamente teletrasmesso all’unità coronarica di riferimento. Se il cardiologo di guardia rileva segni compatibili con infarto, veniamo allertati ed in 30 minuti siamo operativi in qualunque ora del giorno e della notte. La rete accelera i tempi di ingresso in sala operatoria evitando inutili ritardi. Time is muscle ricordano gli anglosassoni, questo protocollo permette la riduzione dei tempi per accedere ad una corretta rivascolarizzazione miocardica con conseguente maggiore salvataggio di muscolo cardiaco.
Esiste una tipologia di infarto meno grave?
Certo. Esiste una tipologia di infarto meno grave, è l’infarto del miocardio con coronaria non completamente ostruita. Esso consente al paziente ed agli operatori più tempo per poter accedere ad una diagnosi e ad un laboratorio di emodinamica. In questo caso l’elettrocardiogramma e l’ecocardiogramma possono essere muti e per fare diagnosi si rende necessario un prelievo per la ricerca della positività dei markers di necrosi miocardica – la troponina.
Ci potrebbe parlare dell’angina stabile e dell’angina instabile?
L’angina pectoris è un sintomo caratterizzato da oppressione toracica in cui, noi cardiologi, riconosciamo peculiarità compatibili con ischemia miocardica. La differenza tra stabile ed instabile è squisitamente clinica e ruota attorno al presupposto che definiamo instabile una sintomatologia anginosa in cui temiamo una possibile evoluzione pericolosa per il paziente nel breve periodo.
Si parla di angina instabile ogni qual volta ci troviamo dinnanzi ad un paziente che riferisce una di queste condizioni: angina pectoris sotto sforzo da meno di 30 giorni, angina pectoris a riposo, angina pectoris da sforzo fino a quel momento stabile ma che tutto a un tratto diviene ingravescente (compare per sforzi sempre più minimi). Ognuna di queste condizioni è accomunata dal fatto che all’interno delle coronarie gli equilibri che fino a quel momento garantivano la stabilità dell’aterosclerosi coronarica sono cambiati. Spesso l’angina instabile è l’anticamera dell’infarto. Se la ricorda la nostra “amica” placca aterosclerotica? Ecco, si è attivata, si è infiammata, sta provando a rompersi!
Che cosa sono le occlusioni coronariche croniche?
Fino a questo momento abbiamo parlato di stenosi e trombosi, lesioni in grado di provocare una ischemica miocardica acuta più o meno grave. Parliamo invece di occlusione coronarica cronica dinnanzi ad una ostruzione completa (100%) di un ramo coronarico databile da più di 3 mesi. Nella maggior parte dei casi rappresenta la cronicizzazione di una lesione coronarica responsabile di un infarto miocardico misconosciuto che non è andato incontro ad una angioplastica durante la fase acuta.
Può capitare infatti che a causa di una sintomatologia atipica per infarto, o una sintomatologia trascurabile, come affanno o malessere, il paziente non accorgendosi di avere un infarto miocardico in corso non accede ad un trattamento di riapertura del vaso. Più di rado, l’occlusione cronica può essere la graduale evoluzione nel tempo di una stenosi severa che diventa occlusiva, in tal caso la progressiva attivazione di meccanismi di compenso, detti circoli collaterali, evita i danni cardiaci irreversibili che generalmente si associano all’infarto non rivascolarizzato.
Come si scopre?
Capita che per accertamenti successivi guidati dall’insorgenza di una angina da sforzo o per riscontro occasionale di infarto all’elettrocardiogramma o all’ecocardiogramma, il paziente esegua una coronarografia con riscontro di una coronaria occlusa cronicamente.
Ci potrebbe parlare del trattamento?
Il trattamento di questo tipo di ostruzione una volta che la lesione è cronicizzata è molto dibattuto nella moderna letteratura medica, dove i pareri in merito sono discordanti. Infatti, a causa del tipo di consistenza di cui è formata l’occlusione, sono necessarie delle tecniche e dei materiali particolari che rendono l’intervento più complesso. La complessità è associata ad un maggior rischio di complicanze procedurali rispetto ad una angioplastica standard, a fronte di un beneficio clinico che talvolta è marginale.
Questo accade perché spesso il distretto a valle dell’occlusione cronica, avendo già avuto un infarto, potrebbe non beneficiare della riapertura di una arteria che nutre una porzione di cuore già irreversibilmente danneggiata. Ecco perché, prima di eseguire questo tipo di angioplastica, si rende necessaria l’evidenza di vitalità miocardica mediante strumenti come l’ecocardiogramma o la risonanza magnetica cardiaca.
In generale, la riapertura di una occlusione cronica oggi è fattibile grazie ai nuovi materiali di cui disponiamo, ma dipende da particolari fattori: età del paziente, motivazione del paziente, presenza di vitalità miocardica nella sede occlusa, presenza di sintomi invalidanti e/o fastidiosi non gestibili con le medicine, dimensione dell’arteria, lunghezza dell’occlusione.
Quali sono i più importanti fattori di rischio cardiovascolari?
I principali, come l’ipertensione, l’ipercolesterolemia, il fumo, il diabete e l’età, gli abbiamo già citati parlando dell’aterosclerosi. Non dimentichiamoci però dell’obesità, dell’insufficienza renale ed oggi si parla tanto anche di stress, vivere in maniera frenetica, secondo i ritmi occidentali, non fa bene al cuore!
Quali sono i fattori di rischio modificabili e quali quelli non modificabili?
I fattori di rischio modificabili sono tutti quelli che, con un po’ di buona volontà, possono essere corretti, trattati o addirittura eliminati. Per intenderci, il fumo è modificabile e se si smette ad una età adeguata il suo effetto nocivo sulla parete delle arterie è addirittura eliminabile, viceversa se uno smette di fumare a 70 anni, dopo tre infarti e 5 stent, la frittata è già bella che fatta, con danni praticamente irreparabili. Sull’ipertensione o sull’ipercolesterolemia si può lo stesso intervenire grazie alle terapie farmacologiche ed a particolari schemi comportamentali. Sfortunatamente, su altri fattori di rischio, come l’età e la familiarità, abbiamo poche armi a disposizione se non una accurata prevenzione e la possibilità di intercettare il prima possibile sintomi sospetti.
Parliamo di prevenzione cardiovascolare. Cosa può dire a riguardo?
Le cattive abitudini vanno perse da giovani! Prima si correggono i fattori di rischio con l’eliminazione di comportamenti nocivi come il fumo e la vita sedentaria e meglio è. Prima si inizia con l’assunzione di farmaci come la statina o antipertensivi nel paziente ad elevato rischio cardiovascolare, minore sarà la probabilità di avere un evento avverso come l’infarto o l’ictus nei dieci anni successivi.
Recentemente a tal proposito, le ultime linee guida sull’argomento suggeriscono di trattare il colesterolo LDL (cattivo) nei pazienti ad elevato rischio cardiovascolare – che dipende da età e dal numero di fattori di rischio presenti nel singolo paziente – in maniera aggressiva con l’obiettivo di raggiungere gli stessi valori di LDL che ricerchiamo nel paziente infartuato. Questo per sottolineare quanto è subdola l’aterosclerosi e quanto è importante incidere precocemente sulla sua formazione.
Lo stress è un fattore di rischio?
Lo stress è un potente induttore di diversi fattori di rischio, nonché co-responsabile di numerose patologie cardiovascolari. Purtroppo oramai fa parte integrante del DNA della società occidentale. Per quanto possibile, il mio consiglio è quello di provare a vivere la vita in maniera meno rigida, di ricordarsi di prendersi cura dei propri interessi e dei propri spazi extra-lavorativi, di affrontare le vicissitudini con un piglio, oserei dire, più orientale, realizzando che talvolta l’idea del controllo con la quale veniamo educati spesso sta alla base di stress, ipocondrie e somatizzazioni anche cardiache. In questo contesto, personalmente, trovo lo sport moderato uno strumento di catarsi che libera il corpo dall’ipertensione, dall’ipercolesterolemia, dall’iperglicemia e dall’obesità, e contemporaneamente la mente dai mille pensieri che quotidianamente ostacolano il nostro benessere.
Ha detto: sport moderato?
Ho volontariamente detto moderato, per distinguerlo dallo sport ad alto impegno cardiovascolare che non di rado fa più male che bene, soprattutto quando non associato ad una adeguata preparazione e ad un atletismo coltivato negli anni. Insomma un appello ai master senza trascorsi da sportivi, iniziare in età adulta a fare i maratoneti per combattere l’obesità può riservare cattive sorprese!
Che cosa sono le valvulopatie cardiache?
Il cuore non è fatto di sole coronarie e malattia aterosclerotica. Le valvole cardiache sono delle strutture mobili all’interno delle camere cardiache che, aprendosi e chiudendosi, sono in grado di direzionare il flusso di sangue dentro e fuori dal cuore. Ci sono 4 valvole nel cuore, ognuna di esse può essere interessata da stenosi quando, non aprendosi nella maniera corretta, determina un ostacolo al flusso anterogrado di sangue, oppure da insufficienza quando, chiudendosi male, non è in grado di sigillare correttamente la camera cardiaca adiacente provocando un rigurgito retrogrado di sangue. Le valvulopatie dell’adulto più comuni e gravi sono la stenosi aortica severa e l’insufficienza mitralica severa.
Come vengono diagnosticate?
L’esame di riferimento è l’ecocardiogramma con l’applicazione eco-color e del doppler. Generalmente è sufficiente un eco transtoracico, talvolta si rende necessario l’ecocardiogramma transesofageo.
Cosa può dire riguardo l’intervento da adottare?
Storicamente le valvulopatie sono state appannaggio del cardiochirurgo. Difatti non esiste alcun farmaco in grado di aggiustare una valvola malfunzionante. Quando la valvulopatia ha raggiunto il grado di severità tale da compromettere la funzionalità globale del cuore o mettere a rischio la vita del paziente, deve essere riparata o sostituita ad opera del cardiochirurgo. Questo tipo di intervento però, particolarmente invasivo, necessitante anestesia generale e nella maggior parte dei casi l’arresto temporaneo del cuore, assume un rischio operatorio troppo elevato in alcune categorie di pazienti, per intenderci, i pazienti fragili affetti da altre patologie extracardiache o i pazienti particolarmente anziani. In questo specifico contesto si inserisce nuovamente la figura del cardiologo interventista.
Negli ultimi anni è emerso prepotentemente il concetto di Valve Center e Heart Team grazie al quale il singolo paziente con valvulopatia riceve il trattamento per lui più adeguato in funzione del suo profilo clinico e di rischio operatorio.
Che cosa intende dire?
Traduco, non parleremo più di stenosi aortica uguale patologia chirurgica; bensì, merito di un approccio multidisciplinare in cui intervengono più specialisti del cuore, il paziente viene inquadrato nella sua globalità. La valvulopatia, come la già citata stenosi aortica, diviene solo uno dei tasselli di un puzzle ben più articolato, dove ogni pezzo definisce sia il rischio operatorio del singolo paziente, sia la fattibilità tecnica procedurale della singola valvulopatia. Il risultato è che viene confezionato un trattamento personalizzato, in equilibrio tra sicurezza ed efficacia, per ogni singolo paziente. Indipendentemente dal tipo di valvulopatia, saranno l’età e le condizioni generali del paziente a guidarci sul trattamento chirurgico standard o al trattamento transcatetere meno invasivo.
Che cosa sono le cardiopatie strutturali?
Si immagini il cuore come una casa, la casa è dotata di un impianto idraulico, di un impianto elettrico e di una struttura fatta di mura portanti con porte e finestre. L’impianto idraulico del cuore sono le coronarie, l’impianto elettrico il tessuto di conduzione e la parte strutturale è rappresentata da miocardio ed endocardio. Le cardiopatie strutturali sono quelle che riguardano quest’ultima componente. Possono essere congenite come i difetti interatriali o interventricolari, oppure acquisiti su base degenerativa come la grande famiglia delle valvulopatie.
Lei partecipa all’attività interventistica strutturale. In che modo interviene?
L’interventistica strutturale ha assunto particolare enfasi negli ultimi 10 anni. Dopo anni in cui si è occupata limitatamente al trattamento di cardiopatie strutturali congenite, la recente rivoluzione è derivata dalla possibilità di operare con l’uso di cateteri anche cardiopatie strutturali, più frequenti e complesse, come le valvulopatie dell’adulto.
Il fiore all’occhiello è rappresentato dalla TAVI (impianto trans catetere di valvola aortica), una innovazione, tecnica e tecnologica, che ci permette di sostituire la valvola aortica stenotica con una protesi biologica pre-montata in un grosso stent. Attraverso la sola puntura dell’arteria della gamba è possibile avanzare il catetere munito di valvola fin dentro al ventricolo sinistro. Sfruttando lo stesso principio dell’angioplastica con impianto di stent che abbiamo affrontato in precedenza, una volta posizionati nella maniera corretta, si gonfia il pallone di questa grossa sonda che determina l’apertura dello stent valvolato ed il rilascio della nuova protesi all’interno della vecchia valvola. Con un intervento mininvasivo di circa 90 minuti si evita l’anestesia generale, la circolazione extracorporea e la ferita chirurgica, garantendo al paziente anziano fragile una terapia altrettanto efficace ma con una invasività ed un rischio operatorio decisamente inferiore. Utilizzando lo stesso principio, con i cateteri siamo in grado di aggiustare parzialmente la valvola mitrale insufficiente di pazienti con scompenso cardiaco avanzato. Sempre tramite cateteri che passano attraverso vasi sanguigni, è possibile ancorare tra loro con una molletta i due lembi valvolari della mitrale malfunzionante, così da ridurre l’insufficienza. Sfortunatamente questa tecnica, al momento, non garantisce i risultati della TAVI, ma confidiamo nel giro di alcuni anni di poter posizionare anche sulla mitrale delle vere e proprie protesi valvolari complete senza aprire il torace. Grazie allo sviluppo di nuovissime tecnologie, lo stesso discorso vale per la valvola tricuspide, valvola del ventricolo destro considerata negletta per tanti anni, in cui è possibile utilizzare la molletta di cui abbiamo parlato poc’anzi e nel prossimo futuro auspichiamo lo sviluppo di protesi impiantabili con cateteri.
Ultimo ma non meno importante, la nuova frontiera della cardiologia interventistica è la prevenzione dell’ictus cardio-embolico. Nei pazienti affetti da una diffusissima aritmia cardiaca chiamata fibrillazione atriale si rende necessario il quotidiano uso di farmaci anticoagulanti con lo scopo di impedire la formazione di trombi all’interno dell’atrio sinistro.
Da cosa è data la pericolosità di questi trombi?
La pericolosità di questi trombi è data dal fatto che in caso di loro migrazione verso organi nobili come il cervello, possono essere causa di gravi embolie con conseguente infarto cerebrale, chiamato stroke o ictus. Nonostante la moderna terapia anticoagulante sia efficace nel ridurre questo rischio, alcuni pazienti, andando incontro a gravi emorragie correlate al farmaco, sono obbligati a sospendere l’anticoagulante esponendosi ad un elevato rischio di cardio-embolia. In questi casi selezionati, è possibile isolare l’appendice del cuore in cui si formano i trombi attraverso l’inserimento di una protesi dedicata in grado di escludere questa cavità. L’intervento prende il nome di chiusura percutanea dell’auricola sinistra.
Che cosa si intende per aorta calcifica?
Nei pazienti esposti a fattori di rischio come il fumo, il diabete, l’insufficienza renale severa che porta a dialisi o semplicemente nei pazienti anziani, le strutture vascolari possono andare incontro ad un fenomeno degenerativo che porta prima ad una sclerosi fibrosa e successivamente alla vera e propria calcificazione dei tessuti. La deposizione di calcio nei vasi arteriosi e nelle valvole del cuore, rende queste strutture dure e rigide come la pietra. Una delle condizioni più frequenti che ci troviamo ad affrontare, soprattutto oggi in cui l’età media della popolazione è cresciuta e ci troviamo sempre più spesso ad avere pazienti ottuagenari e nonagenari, è la degenerazione sclero-calcifica della valvola aortica. L’indurimento e la ridotta mobilità delle cuspidi aortiche porta la valvola a non aprirsi più correttamente fino a raggiungere la condizione di stenosi severa. In presenza di stenosi severa, il ventricolo sinistro, principale pompa muscolare del cuore che, attraverso la valvola aortica, spinge il sangue in tutto l’organismo, trova un ostacolo insormontabile legato alla ristrettezza dell’orifizio valvolare. L’effetto di questa valvola ristretta è lento, graduale ma inesorabile, se inizialmente il cuore aumenta la sua massa muscolare – ipertrofia – per spingere più forte il sangue attraverso la valvola, negli anni il muscolo si sfianca fino ad arrivare ad una condizione di non ritorno chiamata scompenso cardiaco.
Come si interviene?
Non esiste medicina o decalcificante per riparare la valvola stenotica. L’unica terapia possibile è la sostituzione della valvola con una protesi artificiale. Storicamente la valvola si è sostituita con l’intervento cardiochirurgico a torace aperto, oggi sono sempre di più i pazienti che beneficiano della TAVI (acronimo di Transcatheter Aortic Valve Implantation = impianto transcatetere di valvola aortica).
Come è cambiata nel tempo la cardiologia interventistica?
Il cambiamento nelle ultime tre decadi è stato sostanziale. Da disciplina pionieristica degli anni 80’ e 90’, negli anni è divenuta la terapia di riferimento per la malattia ostruttiva delle coronarie, soprattutto nel contesto dell’infarto miocardico acuto. Oltre alla preparazione degli operatori ed allo sviluppo di nuove tecniche (uso della arteria radiale, trattamento del tronco comune), l’evoluzione e la diffusione dell’interventistica coronarica la dobbiamo all’utilizzo di materiali e tecnologie sempre più performanti come i cateteri a basso profilo, le guide, gli stent medicati di ultima generazione, l’imaging intracoronarico, per citarne alcune, che rendono le procedure molto più efficaci e sicure rispetto a 15 anni fa. Oggi l’interventistica sta prendendo largo spazio nel campo delle cardiopatie strutturali dell’anziano, soprattutto grazie alla TAVI. Pensi che in un Paese come la Germania, che gode di un sistema sanitario particolarmente abbiente, il trattamento della stenosi aortica calcifica ha subito il cosiddetto “cambio di paradigma” e vede la TAVI come prima scelta nel trattamento della stenosi aortica rispetto alla tradizionale sostituzione chirurgica.
Qual è la vera rivoluzione in questo campo?
Agli occhi del paziente la cardiologia interventistica rende facile cose difficili, grazie alla sua ridotta invasività. Trasforma malattie potenzialmente fatali in patologie affrontabili. L’interventistica ha modificato la storia naturale di due patologie, l’infarto miocardico acuto e la stenosi aortica severa nell’anziano fragile. Basti pensare che in epoca pre-riperfusiva l’infarto miocardico acuto aveva una mortalità a 30 giorni superiore al 30%, oggi in era di angioplastica primaria, nel territorio italiano la mortalità è del 8% (Dati Agenas, programma nazionale esiti 2019), questa percentuale si riduce ulteriormente escludendo i pazienti che per vari motivi non accedono all’angioplastica primaria e focalizzandosi nelle aree urbane in cui vi è una rete delle emergenze cardiovascolari capillare e ben organizzata, divenendo del 4-5% . Discorso analogo per la TAVI che ha aperto le porte ad un trattamento salvavita come la sostituzione della valvola aortica ad un 30% di pazienti che, appena dieci anni orsono, veniva escluso dalla chirurgia a causa dell’elevato rischio operatorio.
Vi è il rischio che a causa del Covid-19, il paziente che si rivolge al pronto soccorso non possa essere curato con tempestività in quanto bisogna adottare un piano di sicurezza anti Covid?
Il rischio maggiore è che per paura del Covid-19 il paziente non si presenti al pronto soccorso/118 ritardando la diagnosi e la terapia dell’infarto. Sono dati già emersi durante la prima ondata di Marzo-Aprile e pubblicati su riviste scientifiche di altissimo rilievo come il New England Journal of Medicine e lo European Heart Journal.
Durante la prima ondata la stampa ed i media hanno enfatizzato il rischio di contagio all’interno delle strutture sanitarie, questo è divenuto un boomerang. Se è vero che la pandemia ha liberato i pronto soccorso di tutta Italia dai numerosi accessi inappropriati che quotidianamente affollano le nostre strutture di emergenza, ha tanto intimorito la popolazione che molti pazienti con infarto hanno evitato l’accesso in ospedale o sono giunti a giochi già fatti, ricordiamo che l’infarto è una patologia tempo dipendente e già dopo 6 ore l’angioplastica primaria perde di efficacia, dopo 48 ore è pressoché inutile.
I dati di cui vi ho accennato evidenziano una scena drammatica in cui la mortalità a 30 giorni per infarto miocardico acuto durante la prima ondata Covid-19 si è triplicata tornando alle percentuali di 20-30 anni fa.
Ciò non può e non deve continuare ad accadere in quello che si prospetta essere un inverno molto duro per tutti.
Oggi gli ospedali hanno attivato protocolli di screening e sicurezza anti-covid che stanno permettendo di ridurre al minimo questo rischio. Le urgenze differibili entrano nei reparti di degenza solo previa esecuzione di tampone, le emergenze vengono trattate come sospette covid per non ritardare una terapia salvavita e dopo la procedura rimangono in isolamento in attesa dell’esito del tampone,
Inoltre, richiamando un po’ di numeri che ci aiutano a dare la giusta dimensione del problema, ricordiamoci che il covid-19 rappresenta una sciagura per la comunità e per il sistema sanitario nazionale a causa della facilissima diffusione del virus che porta rapidamente ad avere un alto numero assoluto di contagiati in contemporanea e da cui deriva un elevato numero assoluto di pazienti che possono andare incontro a complicanze virus-relate, esigenza di ricoveri e occupazione di terapie intensive.
In questo contesto l’incidenza dell’infarto è significativamente più bassa rispetto all’infezione da Sars-Cov 2, perciò non paragonabile in termini di emergenza sanitaria per il nostro Paese.
Se però ci focalizziamo sulla percentuale di mortalità grezza a 30 giorni per le due patologie nel singolo paziente, scopriamo che chi va incontro ad un infarto miocardico acuto rischia di morire nel 8% dei casi (dati Agenas), potendo addirittura arrivare al 14% se non rivascolarizzato – secondo i recenti dati pubblicati sullo European Heart Journal a cura della Società Italiana di Cardiologia – viceversa secondo gli ultimi dati inerenti la seconda ondata di Covid-19, in cui grazie al maggior numero di tamponi si stanno tracciando molti più pazienti asintomatici o con sintomi lievi identificando con più precisione la reale popolazione di malati rispetto ai numeri di Marzo-Aprile, sembrerebbe che la letalità apparente del virus sia inferiore al 1% [Instant Report Covid-19 dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari (Altems) dell’Università Cattolica] e non del 6.5% come appariva ad Aprile, con una rischio prevalente in certe categorie fragili di pazienti. Tutto questo per ricordare ai lettori che è necessario mantenere alto il livello di guardia tanto per Covid-19 quanto per l’infarto acuto del miocardico.
Che cosa rappresenta per lei il suo lavoro?
È parte di me. Sono quello che sono anche grazie e per colpa del mio lavoro. Le esperienze lavorative vissute, i rapporti instaurati con i pazienti, con i colleghi, con i collaboratori che ruotano attorno alla mia quotidianità professionale mi hanno maturato, cambiato, credo migliorato. È una perenne fonte di gioie e dolori che vivo sempre con grande entusiasmo. Rispecchia a tutti gli effetti gli attributi di un grande amore, spesso me ne lamento, ma non ne potrei mai fare a meno!
Qual è la soddisfazione più grande in questa professione?
Il medico esiste perché esistono i pazienti di cui prendersi cura. Senza il paziente la nostra figura perderebbe di senso, è un legame indissolubile che tengo sempre a mente. La gratitudine di un paziente che riconosce nel tuo operato una fonte di speranza e prospettiva di una vita normale è la soddisfazione più grande. Entrare nella vita delle persone, conoscerne le debolezze, le paure, i timori, fartene carico, dare risposte e cercare soluzioni, rappresenta croce e delizia di una professione oggettivamente diversa dalle altre.
Che consiglio può dare alle persone che leggeranno la sua intervista?
Le sue domande, precise ed interessanti, ci hanno permesso di fare una panoramica dettagliata di una fetta piuttosto ampia della cardiologia moderna. Per chi è in cerca di risposte precise o semplicemente curioso, il mio consiglio è di dedicare 10 minuti del proprio tempo alla lettura integrale dell’intervista e di fare tesoro di alcuni messaggi chiave che emergono. Sono sempre stato convinto che un paziente informato è un paziente che si cura meglio.
Chi è Alberto quando non veste i panni del cardiologo interventista?
Un Clark Kent qualsiasi… Conduco una vita familiare molto semplice, con mia moglie Laura e il nostro cane Lab, un meticcio dal manto dorato, col cuore grande ed una intelligenza fuori dal comune. Sono molto attaccato ai miei genitori e a mia sorella. Per la gestione del tempo libero mi sono dato una regolare ferrea, sulla base di una convinzione personale che ho: un uomo che si interessa solo del proprio lavoro è un uomo incompleto, pertanto quando tolgo il camice piombato abbandono la medicina e cerco di coltivare diversi interessi, che variano dal leggere storia e filosofia, viaggiare – voglio conoscere tutto il mondo prima di beccarmi un colpo! – , all’attività sportiva ludico-ricreativa, corsa e mountain bike, che mi aiuta a riequilibrare il corpo e la mente.
Attualmente in cosa è impegnato?
Sul versante professionale sto riprendendo un discorso interrotto qualche anno fa riguardo l’uso di stent coronarici costruiti con una lega metallica bio-riassorbile, molto interessante e con grandi prospettive. Spero, inoltre, che il 2021, Covid-19 permettendo, mi permetta di riprendere alcuni progetti in collaborazione con dei colleghi di altri centri nazionali ed internazionali riguardo l’analisi della placca aterosclerotica coronarica vulnerabile attraverso una metodica di imaging intracoronarico chiamata tomografia a coerenza ottica.
Sul versante ricreativo, invece, sono da un anno che mi balena in testa di riprendere a studiare – ritorno a fare lo studente! – Sinceramente non so se ci riuscirò, la giornata è di 24 ore ma me ne servirebbero almeno 36! Stay tuned!
Progetti?
Uno. Top secret! I cardiologi interventisti, nonostante siano uomini di scienza, sono parecchio scaramantici. Ndr: ride
Vuole aggiungere altro?
Avrà notato che sono un chiacchierone, ma temo di aver finito le parole!
Sledet.com ringrazia per l’intervista il dottor Alberto Boi, e ad maiora!
Persona di grande professionalità e empatia che sa esporre le problematiche con grande chiarezza e sensibilità. Raro esempio di medico esemplare.
Bellissima e coinvolgente intervista di un grande professionista quale è il dottor Alberto Boi. Qualche anno fa mio marito ha avuto bisogno del suo intervento e oltre alla sua indiscussa professionalità mi ha colpito la sua grande umanità che ritrovo in ogni visita di controllo , in ogni mia telefonata ogni qualvolta mio marito ha un problema.. la sua pazienza nello spiegarci con parole semplici ciò che succede, come affrontare e risolvere il problema… La sua sicurezza ci tranquillizza e rassicura. Siamo orgogliosi di essere suoi pazienti. Conserverò questa intervista per rileggerla più volte e comprendere bene alcune dinamiche per me sorprendenti.
Un ringraziamento speciale al Dott. Boi, che svolge con amore e grande professionalità il suo lavoro. Un’intervista piacevole da leggere con cura e grande riflessione. Un”abbraccio forte, il paziente.